INSEGNARE FILOSOFIA O INSEGNARE A PENSARE?

Sull’insegnamento della filosofia a scuola

di Francesco Luigi Gallo

Nelle pieghe dell’Allegato A del Decreto Legislativo 17 ottobre 2005, n. 226, si intravede un ideale ambizioso: trasformare la molteplicità dei saperi in un sapere unitario, dotato di senso, capace di motivare l’apprendimento e di orientare l’agire del giovane nella società. L’obiettivo dichiarato è quello di formare non solo studenti istruiti, ma individui pensanti, in grado di elaborare autonomamente ciò che apprendono, integrando conoscenze e abilità in una visione complessa e personale del mondo. L’educazione, in questa prospettiva, non si esaurisce nell’accumulazione nozionistica, ma si configura come incontro vivo e dinamico tra patrimonio culturale e coscienza in formazione.

In questa cornice, la filosofia dovrebbe assumere un ruolo cardine. Essa, infatti, più di ogni altra disciplina, si costituisce come interrogazione radicale, come ricerca di senso, come esercizio di razionalità che mira a superare i limiti di prospettive d’analisi troppo parziali. Non a caso, nelle Indicazioni nazionali per i licei, la riflessione filosofica è presentata come una modalità fondamentale della ragione umana, capace di riproporre — in ogni epoca e in ogni tradizione — le domande originarie sull’essere, sulla conoscenza, sull’esistenza dell’uomo. Si auspica che lo studente, al termine del percorso liceale, non solo conosca gli autori e i nodi fondamentali del pensiero occidentale, ma abbia anche sviluppato una capacità critica, un giudizio personale, un’attitudine alla discussione razionale, fondata sulla padronanza dell’argomentazione.

Tuttavia, alla luce della prassi didattica reale, occorre interrogarsi onestamente: l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori rispecchia davvero questo spirito? Le finalità educative — alte e condivisibili — trovano un effettivo riscontro nella concretezza delle aule scolastiche, nei metodi adottati, nei contenuti selezionati, nelle modalità di valutazione?

Il rischio, sempre presente, è che la filosofia venga ridotta a un’antologia di sistemi, a una cronologia di autori e dottrine da ricordare e ripetere. Si studia ciò che Aristotele ha detto, ciò che Kant ha scritto, ciò che Hegel ha pensato, ma si tralascia spesso di coltivare quella tensione interrogativa che dovrebbe attraversare tutto il percorso. In questo modo, la filosofia viene separata dalla vita, svuotata della sua forza dirompente, trasformata in una materia tra le altre, con le sue regole, le sue interrogazioni scritte, i suoi voti… ma senza più lacerare le certezze, sconvolgere le ovvietà, formare lo sguardo critico che sarebbe chiamata a suscitare.

La distanza tra la filosofia come ideale educativo e la sua pratica scolastica trova la sua origine in un fraintendimento fatale, che grava come una colpa non pienamente riconosciuta sul sistema dell’istruzione: l’assimilazione della filosofia a una disciplina tra le altre. Ma la filosofia, propriamente intesa, non è una disciplina: è una modalità del pensiero, un’attitudine, un modo di interrogare il mondo. Essa non possiede un oggetto specifico, come la fisica o la biologia, ma si definisce piuttosto per la forma del suo sguardo: un pensare che non si accontenta, che dubita, che scava nelle premesse e nei presupposti.

La storia della filosofia, al contrario, è una disciplina strutturata, che può essere insegnata con metodo, cronologia, bibliografie. Ma scambiare la storia della filosofia per la filosofia stessa è un errore concettuale e pedagogico di vasta portata. Sarebbe come confondere la storia della scienza con la pratica scientifica: lo scienziato non è tale perché conosce i nomi dei suoi predecessori, ma perché assume un certo atteggiamento verso il reale, sperimentale, critico, rigoroso. Così, anche il pensare filosofico non nasce dalla memorizzazione delle dottrine, ma da un esercizio incessante della ragione, da un’urgenza di senso, da una disponibilità al problema più che alla risposta.

Quando gli studenti affermano che la filosofia è “inusuale”, spesso vengono corretti con severità. Ma in realtà hanno ragione — pur senza saperlo fino in fondo. Ciò che trovano inusuale non è la filosofia in sé, ma la forma scolastica in cui essa viene loro presentata. Non pensano filosoficamente, non sono messi in condizione di farlo, ma sono piuttosto costretti a imparare cosa hanno pensato altri, in epoche diverse e con linguaggi spesso inaccessibili.  La responsabilità di questo scollamento tra intenzioni e realtà è certamente distribuita: la rigidità dei programmi, l’ossessione valutativa, la scarsità di tempo, ma anche — e soprattutto — una concezione impoverita della filosofia, che la riduce a museo di idee. Troppo spesso i docenti, pur animati da passione e competenza, trascurano la dimensione esperienziale del filosofare: pochi minuti, magari a fine lezione, dedicati a una domanda posta agli studenti, a una breve discussione, a un tentativo di argomentazione. Ma non basta. Perché il pensare, come il vivere, richiede esercizio, dedizione, tempo.

Filosofi “nati dal nulla” e il problema delle fratture storiografiche

Un altro aspetto profondamente problematico dell’insegnamento scolastico della filosofia riguarda la struttura storiografica con cui il sapere filosofico viene impacchettato e trasmesso. La manualistica, che detta in larga misura il ritmo e il contenuto dell’attività didattica, impone una scansione cronologica rigida e semplificata, suddividendo il pensiero in epoche: antica, tardo-antica, medioevale, moderna, contemporanea. Ogni epoca viene presentata come un blocco temporale compatto, spesso introdotto da un autore “spartiacque” — Agostino, Cartesio, Kant — come se la storia del pensiero si sviluppasse per salti, per cesure nette, e non, come realmente avviene, per tensioni, continuità, polemiche, recuperi e trasformazioni.

Ancora più grave è il modo in cui i filosofi vengono spesso presentati: come figure isolate, sradicate dal proprio tempo e talvolta persino dalla propria tradizione. Autori come Platone, Tommaso d’Aquino, Cartesio o Hegel appaiono, nei testi scolastici, come meteore concettuali, geni che sorgono dal nulla, ognuno con la propria dottrina ben confezionata, da apprendere e sintetizzare. Si dimentica così che ogni filosofo nasce da un confronto, da una rete di interlocuzioni, da problemi ereditati, da intuizioni ricevute o contestate. Platone non è comprensibile senza Parmenide, come egli stesso ammette nel Sofista, evocando un “parricidio concettuale” nei confronti del padre dell’ontologia. Tommaso d’Aquino resta un mistero senza Aristotele, che non si limita a citare, ma ricompone dentro la struttura teologica del cristianesimo. Lo stesso Cartesio, spesso presentato come il “fondatore” del pensiero moderno, non può essere capito senza conoscere le tensioni religiose e scientifiche del Seicento, e soprattutto senza leggere in trasparenza l’eredità agostiniana del suo dualismo.

La presentazione atomistica dei filosofi tradisce la natura dialogica della filosofia. Ogni autore è una risposta, una reazione, un rilancio, mai un inizio assoluto. Eppure la didattica scolastica tende a spezzare questi legami, riducendo il pensiero a una serie di capitoli autoconclusi, dove la figura del filosofo si staglia come eroe solitario del concetto, anziché come partecipe di una conversazione millenaria. Questo approccio, oltre a essere storicamente falso, rende più difficile per gli studenti comprendere il senso stesso della filosofia come attività dialogica e storicamente situata.

Certo, si potrebbe obiettare — ed è obiezione seria — che il tempo didattico è limitato, che l’impianto dei programmi è vincolato, che non è realistico trasformare la struttura curriculare della scuola superiore in una palestra ermeneutica o in un laboratorio di genealogie concettuali. Ma se questo è vero, è altrettanto vero che continuare a perpetuare l’attuale impostazione non rappresenta una valida alternativa. L’insegnamento della filosofia non può continuare a basarsi su un modello narrativo che falsifica il processo stesso del pensare.

Anche le scansioni epocali, presentate come strumenti neutrali di organizzazione del contenuto, meritano un’analisi critica. Non solo perché costruiscono compartimenti stagni che raramente comunicano tra loro — rendendo difficile, ad esempio, cogliere l’attualità di certi temi antichi nella filosofia contemporanea — ma anche perché rafforzano un’immagine lineare e progressiva della storia del pensiero, che non sempre corrisponde alla realtà.

Questo limite della strutturazione storiografica scolastica non è solo una questione teorica: è un problema che si manifesta con chiarezza nel lavoro concreto dello studioso. Durante gli anni del mio dottorato di ricerca mi sono trovato immerso nello studio di Pietro Pomponazzi, filosofo italiano del Rinascimento. Il quesito che guidava le mie prime indagini era apparentemente semplice: Pomponazzi, questo mi chiedevo (sbagliando forse proprio l’impostazione) è più moderno o più tradizionale? Un pensatore di rottura o un erede del passato? Ma ben presto mi resi conto che questa stessa domanda nasceva da una cornice interpretativa distorta, nutrita da quelle rigide scansioni cronologiche che ci hanno insegnato a considerare il Rinascimento come una frattura netta con il Medioevo.

La mia ricerca, infatti, mi costrinse a rivedere quella dicotomia, a mettere in discussione la narrativa consolidata che contrappone radicalmente “moderno” e “medievale”. Come molti altri studiosi prima di me avevano intuito, compresi che il Rinascimento non fu «un fiore nel deserto», come lo definì Burckhardt, ma piuttosto un campo ibrido, ancora profondamente nutrito di linfa medievale, pur germogliando verso nuove forme di pensiero.

Pomponazzi, nel suo rapporto con Aristotele e con la tradizione scolastica, incarnava proprio questa continuità sommersa: non un rivoluzionario solitario, ma un interprete critico, certamente innovativo e originale, di un’eredità millenaria. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, lungi dall’essere una rottura improvvisa, si rivelava così come un processo lento, stratificato, ambiguo, in cui il nuovo si sovrapponeva al vecchio senza cancellarlo del tutto.

Questo tipo di consapevolezza non si acquisisce attraverso l’apprendimento scolastico tradizionale, dove le epoche sono muri, e non soglie; dove si passa da un’epoca all’altra come se si cambiasse aula, lasciando dietro di sé ogni legame col passato. Eppure è proprio nella porosità delle transizioni storiche che si coglie l’essenza del pensiero: un movimento continuo, mai definitivo, che si alimenta tanto di rotture quanto di fedeltà, tanto di rivoluzioni quanto di sedimentazioni.

Perché non mostrare agli studenti la filosofia nei suoi passaggi intermedi, nelle sue tensioni e nei suoi ritorni, invece che solo nei suoi presunti momenti di svolta? Perché non abituarli a pensare contro le categorie scolastiche, invece che solo dentro di esse?

Queste etichette, usate con eccessiva disinvoltura, finiscono per nascondere più che rivelare, appiattendo la ricchezza dei movimenti intellettuali sotto un sistema di date, categorie e svolte epocali prefissate. Rendere problematica la storiografia filosofica — e non solo il contenuto della filosofia — significa educare a una coscienza critica del sapere stesso, a una riflessione metalinguistica che è, in fondo, parte essenziale del filosofare. E forse proprio questo tipo di consapevolezza, se adeguatamente stimolata, potrebbe restituire alla filosofia scolastica quel ruolo formativo profondo che i documenti normativi auspicano ma che le pratiche correnti rischiano di tradire.

Una lezione con un punto interrogativo

Qualche giorno fa, in occasione dell’esame di abilitazione all’insegnamento della filosofia, mi è stato chiesto di progettare una lezione su Cartesio, fondatore della filosofia moderna. Un titolo che sembrava dare per scontata una verità acquisita, una di quelle certezze da manuale su cui nessuno si ferma più a riflettere. E invece, proprio a partire da quella formula apparentemente innocua, ho sentito il bisogno di riaprire la questione, inserendo un punto interrogativo nel titolo: Cartesio: fondatore della filosofia moderna?

Non era solo un espediente retorico. Era un gesto critico. Un modo per segnalare che nessuna verità didattica dovrebbe essere data per acquisita, tanto meno in filosofia. E così ho immaginato una lezione che nascesse da un sentimento autentico di insoddisfazione, lo stesso che anima queste pagine: l’insoddisfazione per una filosofia scolastica che troppo spesso si limita a ripetere, a classificare, a semplificare. Ho scelto di partire da una pagina di Etienne Gilson, studioso che ha profondamente influenzato la mia formazione, e che ha dedicato parte dei suoi lavori a mettere in luce le radici medievali del pensiero cartesiano. Scrive Gilson:

«Apriamo per esempio le opere di Renato Descartes, il riformatore filosofico per eccellenza, di cui Hamelin osava scrivere che “viene dopo gli antichi, quasi come se non ci fosse stato nulla tra essi e lui, salvo i fisici”. Che cosa bisogna intendere con questo quasi? Si potrebbe ricordare dapprima il titolo delle sue Meditazioni sulla metafisica in “cui l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima sono dimostrate”. Si potrebbe ricordare ancora una volta la parentela delle sue prove dell’esistenza di Dio con quella di Sant’Anselmo, e persino con quelle di san Tommaso.
Non sarebbe impossibile dimostrare quanto la sua dottrina della libertà debba alle speculazioni medioevali sui rapporti tra la grazia e il libero arbitrio, problema cristiano per eccellenza».

(Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia, 2009, p. 21)

Questa lettura mostra quanto sia fondamentale insegnare la filosofia come esercizio di interpretazione, come pratica del sospetto e della connessione, non come rituale della semplificazione. Mettere in discussione il “Cartesio fondatore” non significa negarne l’importanza, ma ricollocarlo nel suo orizzonte storico e spirituale, ricostruire i fili che lo legano ai pensieri che lo precedono, comprendere come ogni grande pensatore sia, in fondo, figlio di un dialogo millenario.

Se, come ho già avuto modo di sostenere in altre occasioni su questa stessa rivista, le qualità dell’insegnante specializzato risiedono innanzitutto nella relazione umana, nella comprensione esistenziale, in una compassione autentica e in un’empatia profonda, allora è legittimo chiedersi quale sia l’identità specifica di chi insegna filosofia. Anche l’insegnante di filosofia, evidentemente, non può prescindere dalla dimensione relazionale — nessuna educazione è possibile al di fuori dell’ascolto, del rispetto e della cura — ma la sua vocazione ultima si radica in un compito diverso, forse più raro e per questo più fragile: attivare il pensiero.

Non trasmettere un sapere finito, ma aprire alla domanda. Non collezionare nozioni, ma allenare l’interrogazione. Non “spiegare” la filosofia, ma insegnare a filosofare.

In questo senso, la vera responsabilità dell’insegnante di filosofia è quella di insegnare ad imparare, e soprattutto insegnare ad interrogare. I grandi classici del pensiero non devono essere proposti come reliquie da venerare, ma come strumenti vivi per pensare: per pensare il presente, se stessi, il mondo. Aristotele, Cartesio, Kant o Nietzsche non sono monumenti, ma interlocutori. Le loro domande devono tornare a pulsare nella mente degli studenti, non come oggetti da ripetere, ma come domande proprie — che ciascuno può abitare, rilanciare, riformulare.

Solo così l’insegnamento della filosofia potrà tornare ad essere quello che promette nei documenti ufficiali, ma che troppo spesso tradisce nella pratica quotidiana: una formazione del pensiero, una scuola di libertà, un esercizio di consapevolezza critica. Non ci sarà mai un tempo perfetto, un sistema perfetto, un programma ideale. Ma ogni lezione, anche la più breve, può contenere un gesto filosofico autentico: quello che accade quando uno studente inizia a pensare non ciò che deve sapere, ma ciò che vale la pena chiedersi.

E forse è proprio lì che inizia, finalmente, la filosofia.