GIANCARLO ARMENIA
Nato ad Orvieto, non so dove i miei inizialmente abitassero nel problematico dopo guerra; li ringrazio per avermi battezzato a san Giovenale, una delle più antiche e belle chiese della città , soprastante via della Cava, dove abitavano nonni e zii ( cinque zie e due zii).
Il nonno, Cav. Giuseppe era soprannominato Mozzorecchio perché raccontano avesse avuto distaccato, con un morso, una parte di lobo durante una lite con un fratello.
Ancora oggi per farmi individuare, specie dalle vecchie generazioni, ricordo di essere il nipote di Mozzorecchio.
La nonna, che aveva seguito il marito nelle peripezie lavorative in giro per l’Italia e, si dice, persino al fronte durante la grande guerra, non era molto affettiva ma le zie, a suo tempo mollate ai vari parenti durante le sue assenze, allevatesi l’un l’altra con una sorte di super sorellanza, supplivano abbondantemente e l’affetto è durato negli anni fino alla mia vecchiaia.
Ricordo meglio la casa dei nonni che la nostra; una casa torre medievale con un grande magazzino sottostante una volta romanica, ripide scale, più stanze comunicanti l’una con l’altra fino ad un piccolo giardino sotto una rupe piena di capperi , un angolo occupato da un profumato arbusto di fiori maggiolini ( gli sposi), un altro con il tino del bucato con il ranno,(sistema di sbiancamento dei panni bianchi attraverso un bagno di acqua bollente e cenere filtrate), sempre attivo grazie alla produzione di un enorme focolare interno, sotto e di lato al quale esisteva una panca dove il nonno Giuseppe , quando presente, riposava o raccontava favole ai nipoti.
Dal bagno una scalinata di legno portava alla soffitta, deposito di vecchie cose, patate, regno di sorci e gatti,(i primi se finiti in trappola, i secondi se neonati, venivano affogati in un barile pieno d’acqua posto in giardino).
La casa era riscaldata, oltreché dal camino, da una stufa in cotto e da una grande cucina a legna perennemente accesa dove, oltre a pranzi e cene per famiglia numerosa, venivano preparate marmellate d’uva e mele cotogne, sott’aceti, confezionati pani e pizze lievitati in una grande madia e cucinati ripieni per polli, anatre , oche portati al vicino forno.
Il grande tavolo da pasti era anche il ripiano su cui veniva sezionato il maiale con tutte le sue componenti fresche da consumare subito (budelluzzi e sanguinacci) e quelli da conservare destinati alla cantina o ai contenitori con lo strutto.
Il focolare forniva la brace per l’oggetto definito” il prete”, destinato a scaldare letti altrimenti umidi: il caldo ai letti era dato anche da mattoni riscaldati in forno ed avvolti in giornali e lana.
Il tavolo era destinato anche alla preparazione di pasta all’uovo , pizze e lumachelle, ciambellette all’anice.
Nel giardino di preparava la passata di pomodoro, imbottigliata , avvolta nelle coperte di lana e riposta in un mobile di legno a raffreddare lentamente.
Una sola finestra dava su via della Cava e ricordo il passaggio di greggi e animali precedentemente condotti alla benedizione per sant’Antonio.
Il magazzino diveniva cantina per la pigiatura dell’uva che il nonno sceglieva andando nei vari poderi per la trebbiatura o per fornitura e riparazione di macchine agricole, scivolose scale scavate nel tufo conducevano ad una cantina, già etrusca , dove si favoleggiava di smarrimenti di persone e tesori.
Un enorme tino ospitava i chicchi diraspati per una prima pigiatura, a volte anche con i piedi dei nipoti; svinato il primo mosto si passava ad una pigiatura col torchio(seconda) ed infine le vinacce bagnata davano un terzo vinello da portare al lavoro.
Tutto ciò che poteva inacidire andava nelle damigiane contenenti vecchi, mollicci aggregati di batteri acetificanti ( madre dell’aceto).
Nello stesso magazzino trovava riparo la trebbiatrice con cui il nonno, per quasi due mesi, girava le aie per concludere il rito del raccolto, producendo sacchi di grano, balle di paglia e pagliai.
Insieme alla trebbiatrice un vecchio trattore a testa calda ( Bubba) che veniva avviato scaldando con vari tipi di fiamma il bulbo anteriore dove veniva vaporizzato l’olio combustibile.
I panni, esclusi quelli da sbiancare e disinfettare col ranno, andavano al lavatoio posto in alto vicino alle mura e portati sulla testa con un recipiente appoggiato su un canovaccio arrotolato.
Lo stesso valeva per le brocche di terracotta, marroni o verdi maculate, dell’acqua o del vino e per quanto destinato al forno, magari in più recipienti in bilico su una tavola.
Altro che le modelle coi libri, le nostre nonne dovevano essere un miracolo d’equilibrio e portamento.
A pochi metri dal magazzino era la stalla di un carrettiere che operava piccoli trasporti con l’ausilio del suo cavallo.
Rientrava la sera, spesso ubriaco, e rimetteva cavallo e carretto a marcia indietro, usando frusta e bestemmie che risuonavano per tutta la strada.
Recentemente ho constatato che gruppi di adolescenti e qualche adulto sono ancora peggio del vecchio carrettiere.
Accanto alla chiesa della Madonna della Cava abitava la bisnonna, che ricordo poco se non per la visita alla camera ardente in casa e l’obbligo di bacio d’addio (consuetudine di mia madre che per anni mi ha condotto in visita ai tanti amici e parenti defunti ) .
La lettura più interessante per gli orvietani erano e sono le affissioni funebri e tutti partecipavano all’accompagno dall’ospedale alla porta della città commentando poi “che bel funerale”.
La festa della Madonna della Cava era un grande evento per Cavaroli e cittadini, culminava con un gran palo della cuccagna pieno di grasso e giovani arrampicatori e loro sostenitori corifei di incitazioni e moccoli.
Fuori della porta sotto le mura, sormontata dal busto di papa Bonifacio, ( cui forse la città dovrebbe qualche periodica manifestazione di ricordo e riconoscenza), c’era il grande spiazzo del foro boario dove, con grandi ruote, si fabbricavano funi; tranne il giovedì , quando c’era il mercato degli animali, giganteschi bianchi buoi e mucche , somari, cavalli, muli, pecore e le macchine agricole della ditta Marini e Figli (nonno Mozzorecchio).
Rientrando dalla porta c’era l’immancabile osteria che il giovedì vendeva oltre al vino grandi cartocci di pesciolini fritti; accanto una rivendita di alimentari forniva ai contadini chili e chili di baccalà che mettevano sotto braccio per riportarlo a casa.
Dal mercato si spostavano sulla piazza del comune, sant’Andrea, per chiacchiere, caffè e/o ulteriori bevute alla trattoria dell’Orso.
Da sant’Andrea partiva anche la corsa di bicilette amatoriali, che definivo dei vecchioni, cui il nonno partecipava con bici, maglietta e berrettino d’ordinanza. Ricordo vagamente anche una corsa di somari e muli che si svolgeva “ di sotto” attorno alla città.
Natale era il momento del grande ritrovo di nonni, zii e soprattutto zie con mariti e figli, piatti ricorrenti (tra l’altro): zuppe di ceci e castagne; baccalà con uvetta e pinoli; maccheroni con ricotta, noci, zucchero, alchermes e cioccolata fondente grattugiata.
La sorellanza e l’amore si trasformavano spesso nella riesumazione dei vecchi contrasti ed in liti furibonde, con i mariti che prudentemente uscivano a prendere aria.
Un piatto annualmente ricorrente, che ho talvolta ripreso, era “le fave dei morti” strati di fave secche bollite alternate a strati di bruschetta e poi , ancora, intrisi con l’olio nuovo.
Talvolta veniva con me un amico, la cui famiglia in difficoltà abitative ebbe assegnato un alloggio nelle vicinanze, nell’ex casino di via dell’olmo, di cui scoprii la funzione quando mi invitò a casa per studiare.
Ci venne assegnata una nuova casa dalla parte opposta delle città, vicino alla funicolare, di lì iniziò un periodico pellegrinaggio alla casa dei nonni o, meglio ancora all’Officina.
Quest’ultima era alla stazione di Orvieto, si andava con la funicolare o, meglio, per l’antica strada verticale, quasi parallela alla funicolare, chiamate Le Piagge , facile da scendere e un po’ più faticosa a risalire.(supplivano abitudine ed età)
La vecchia funicolare, antecedente l’attuale con motori elettrici, era un fantastico oggetto di ingegneria a cavallo tra l’800 ed il 900. Due carrozze collegate da un cavo di metallo funzionanti a contrappeso d’acqua e con una cabina di manovra piena di grandi ruote metalliche con funzione frenante e con una stecca meccanica che segnava le posizioni dell’apparato.
Arrivati sotto, l’Officina era una antro magico: sul piazzale seminatrici, erpici, aratri, nuovi ed usati da ricondizionare, all’ interno un tornio, attrezzature da falegnameria per ricostruire parti che allora erano di legno, banchi da lavoro e soprattutto una grande forgia ed un maglio col quale si dava forma a puntali e lame di enormi aratri ( dove non poteva il maglio supplivano gli uomini con le mazze, anche due sincronizzate), sul retro una struttura di legno per contenere gli animali destinati all’intervento da maniscalco. Prevalenti gli odori del carbone e del ferro arroventato, del legno ritoccato a fuoco, del minio e del carburo per l’ossiacetilene.
Noi nipoti eravamo attirati non solo dalla mancette, del nonno prima e dello zio dopo, ma anche dalla possibilità di sottrare vecchi cuscinetti a sfera con cui costruire carrette e monopattini.
Diverse volte ho accompagnato il nonno nelle visite ad aziende agricole per consegne, ritiri preventivi: mi accompagna ancora il ricordo di viali alberati da file di cipressi e il regalo di una grande conchiglia fossile ricevuta sul monte Peglia, da cui cominciai a capire che il mondo non era stato sempre lo stesso.
Chiudo con la trascrizione di un augurio inviato ad un amico in occasione dell’uscita del centesimo numero della sua rivista, in fondo riassume bene la transizione del nostro mondo alla fine degli anni cinquanta.
“Quando da bambino , e poi ragazzo, mio nonno prima ed i miei zii dopo, mi facevano andare sulle aie dove era in funzione la loro trebbiatrice, a 100 quintali di grano attivavano una sirena, azionata appoggiandola su una delle tante cinghie che azionavano l’apparato. Tutte le aie attorno, anche più volte al giorno erano a conoscenza dell’abbondanza del raccolto annuale, festeggiato la sera con cene pantagrueliche e la notte, dai miei cugini più grandi, trebbiatori stagionali e guardiani notturni dormienti sulla paglia , con accoppiamenti , a loro dire, diversi di aia in aia. Ti auguro di ripetere spesso il rito di comunicare il 100 ai tuoi amici, lettori e antipatizzanti. La paglia non ospiterà le nostre notti, causa senescenza, ma la ripetuta sirena sarà una grande consolazione e soddisfazione.
P.S. nonostante le mie aspettative non è mai arrivato il mio turno sotto la trebbia, nel frattempo sono arrivate le mietitrebbia ed anche quelle tradizioni, cultura, credenze, storie di incidenti terribili da cinghie, ingranaggi e vipere sono scomparse. “
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