IL COSIDDETTO INTERESSE NAZIONALE

Maneggiare con cura, può rinculare

di Luigi Troiani

The American Political Dictionary nel 1979 chiama il “National Interest”

«concetto di sicurezza e benessere dello stato, applicato alla politica estera. Un approccio alla politica estera ispirato all’interesse nazionale richiede di maneggiare in modo ‘realistico’ i problemi internazionali, basandosi sull’uso della forza e della potenza divorziati da principi e valori morali.»

È il mastice che aveva tenuto insieme tutta la politica estera statunitense nell’epoca del realismo bipolare. La lezione migliore su questo tipo d’interpretazione dell’interesse nazionale, era venuta da Morgenthau H., J., con il classico Politics Among Nations: the Struggle for Power and Peace del 1948.

Negli anni novanta ci sarebbe stata meno enfasi.

Nel Glossario di Squarcina del 1997 si legge: «Gli interessi degli stati in politica estera sono denominati ‘nazionali’».

Mark R. Amstutz, nel 1995, in International Conflicts and Cooperation, mette l’interesse nazionale a fondamento di ogni politica estera. Nella piramide che riassume gli elementi produttivi di politica estera, la base è data dai “National Interests” a loro volta fondati su “Nationalism” e “Ideology”.

Gli interessi generano i “National Goals”, che a loro volta producono la “National Strategy” e quindi la “Foreign Policy”. Questa si esprime attraverso tre blocchi di azioni: “National Security Policy”, “International Economic Policy”, “Foreign Political Policy”. Amstutz arriva così a definire il “National Interest” (al singolare), come riferimento agli «interessi basilari degli stati alla luce degli interessi degli altri stati». Negli interessi “chiave” che lo stato deve perseguire, sono messi: la sicurezza, il benessere economico, l’identità nazionale.

Amstutz riprende la classica esapartizione degli interessi, di Thomas Robinson in National Interests del 1969:

– vitali (non negoziabili, come sicurezza e intangibilità del territorio),

– non vitali (desideri di rilevanza secondaria),

– generali (le preoccupazioni di tipo generico, come mantenimento di assetti regionali e promozione del benessere economico),

– specifici (obiettivi ben individuati, come l’equilibrio della bilancia commerciale con determinati partner, il miglioramento dei diritti umani in un certo paese),

– permanenti (gli interessi immutabili, come la protezione dei confini nazionali),

– variabili (i desideri non permanenti, come quelli di un certo momento storico).

L’esapartizione viene compattata in due categorie: interessi vitali e non vitali, rapportati al tempo, in quanto “permanenti” o “variabili”.

Applicata all’Italia, l’espressione “interesse nazionale” trova in Carlo Jean uno degli interpreti più convincenti. Coerente con il suo approccio geopolitico – per geopolitica s’intende l’interpretazione delle relazioni internazionali basata sul determinismo della geografia – lo studioso afferma che gli interessi sono dati dalla condizione geopolitica di uno stato – conformazione, localizzazione, terreno, risorse materiali -, chiosando in chiave polemica interna un riferimento alla storia patria:

«Gli interessi degli stati in politica estera sono denominati ‘nazionali’, un aggettivo che dall’8 settembre 1943 e fino a poco tempo fa era in Italia irriso o addirittura bandito dal linguaggio politico.»

Il riferimento all’8 settembre attribuisce alla caduta del fascismo la causa del processo che porterà l’Italia, con il rigetto del nazionalismo, alla rinuncia del perseguimento degli interessi nazionali; ma. si osserva, qualunque nazionalismo è degenerazione e rovina del senso di nazione, e lesiona l’autentico senso di interesse nazionale.

L’opzione geopolitica non è condotta, da Jean, alle estreme conseguenze:

«La geografia fisica e umana non condiziona la definizione degli interessi, come pretesero in passato coloro che parlavano di ‘frontiere naturali’, di ‘spazi vitali’ e di ‘manifest destiny’.»

Il fatto è che prima della nazione e prima dello stato ci sono gli esseri umani. Prima dei confini e delle frontiere, ci sono territori senza recinti né perimetrazioni. Prima dei continenti e delle regioni del mondo c’è il pianeta, casa comune del genere umano. Le differenziazioni tra gentes e popoli nascono nella storia, e fondano, nel lievitare delle familiae in clan, tribù, gruppi etnici e religiosi, il senso di identità e appartenenza esclusiva sul quale viene a innestarsi il bisogno di disporre di un’organizzazione autonoma e sovrana a carattere politico, oggi identificata nella forma stato.

Lo stato è tale in quanto appartenente alla società internazionale degli stati, ovvero al sistema internazionale: lo stato astrattamente orfano della comunità degli stati non esiste, esattamente come non esiste l’individuo al di fuori del suo sociale.

Il modello sistemico applicato alle relazioni internazionali, riconosce questa verità. Nel modello, far prevalere l’interesse nazionale su quello sistemico comporta un danno per il sistema ma anche per lo stato che lo produce. La sicurezza e il benessere delle parti di un sistema sono, infatti, funzione anche del benessere e della sicurezza sistemici.

L’interesse nazionale autentico va quindi ricondotto all’interno dell’interesse delle gentes del mondo, e del sistema internazionale nella sua interezza. In alternativa l’interesse nazionale rischia di essere radice di comportamento leonino e particolaristico (il mio “interesse” sempre e comunque prima e sopra di quello altrui), o esclusivista (io solo so interpretare l’interesse del sistema, grazie alla mia “unicità”), o egemonico (il mio interesse al comando coincide con l’interesse di tutti a sottostarvi) sottraendo gli stati all’obbligo della cooperazione sistemica con gli altri stati.

L’interesse nazionale va riconsiderato all’interno di una scala gerarchica che non può non avere al vertice il benessere e la sicurezza del genere umano in quanto tale.

Si ritrova la pretesa anti-sistemica in molte fasi della politica estera statunitense, vuoi per la missione “liberatrice” che gli Stati Uniti si sono assegnati sin dalla fondazione, vuoi per il tentativo di camuffare come azioni missionarie (esportazione della democrazia o ristabilimento del diritto, ad esempio) classiche azioni di potenza.

Le potenze coloniali europee, come portatrici di civiltà e vera fede ai “primitivi” indigeni, mossero da premesse ideologiche e politiche non dissimili. Nelle ideologie che formano i ributtanti nazionalismi del novecento, sino alle degenerazioni naziste e fasciste, lo scatenamento della guerra di conquista territoriale e razziale è interpretato anche come momento di purificazione ed esaltazione collettiva: è “interesse nazionale” del conquistatore egemone diffondere la “purezza” della sua nazione, ma è anche “interesse nazionale” della nazione conquistata, lenire la propria infezione attraverso l’accettazione dell’egemonia della nazione eletta.

La prima difficoltà teorica [che incontra chi si esprime contro l’interpretazione realista dell’interesse nazionale] è che gli stati hanno obblighi di responsabilità  verso i loro cittadini e solo in casi eccezionali (si pensi al soccorso verso stranieri dispersi in mare, agli obblighi verso apolidi e richiedenti asilo politico) verso il genere umano.

La seconda difficoltà teorica è che i governanti degli stati sono eletti o spediti a casa dal voto dei cittadini: è comprensibile che, nel migliore dei casi, interpretino l’interesse nazionale come interesse degli elettori dai quali vogliono essere confermati al potere.

Occorre che le opinioni pubbliche e gli elettori comprendano che l’interesse nazionale va conciliato con l’interesse ampio del genere umano e della famiglia degli stati. Quest’interesse può chiedere e ottenere sacrifici all’egoismo nazionale, dosi crescenti di fiducia verso terzi, limitazioni al principio della sovranità nazionale.

Nell’Europa centro occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, è stato fatto: gli interessi nazionali, che continuano bellamente a scontrarsi, si incontrano e riassumono anche in un interesse europeo. La minaccia del nazional populismo in Europa sta proprio nella radicale opposizione alla declinazione che dell’interesse nazionale, in quanto interesse innanzitutto europeo, è stato fatto, almeno sino alla seconda decade del nuovo secolo.

Sotto questo profilo può dirsi che il nazional populismo rappresenti oggi, per gli autentici interessi dei popoli e delle loro nazioni, quello che in passato rappresentò l’imperialismo. Si vellicano gli egoismi e le aggressività delle popolazioni, attraverso la rappresentazione parziale e unilaterale, e sempre e solo di breve periodo, di situazioni che andrebbero, al contrario, lette tenendo nel giusto conto le esigenze di tutte le parti in causa, oltre che gli effetti di lungo periodo.

La citazione della vicenda storica dell’imperialismo non è casuale, perché quella vicenda di relazioni internazionali fu costruita sull’ideologia dell’interesse nazionale della nazione imperiale e sull’affermazione dell’interesse delle nazioni e delle popolazioni aggredite ad essere “civilizzate”. Non è tanto all’imperialismo britannico che si fa riferimento, visto che la sua possibilità di nuocere appartiene al passato, quanto a quello che, dalla fine della guerra Civile, è stato espresso dagli Stati Uniti, magari sub specie di diffusore di democrazia.

In Imperial Amnesia un saggio   uscito in “Foreign Policy” nel 2004, John B. Judis, in piena crisi irachena, ricostruiva le varie tappe di questa vicenda, iniziando dalla guerra contro la Spagna del 1898, e la presunta “liberazione” americana di paesi come le Filippine (dopo averli avuti come alleati, gli Stati Uniti combatterono gli indipendentisti filippini per quattordici anni schierando sino a centoventimila soldati e facendo più di duecentomila vittime tra militari e civili).

Judis spiegava come si ritrovassero, in quella vicenda, desiderio di conquista e dominazione, ed elementi di messianismo evangelico e democratico:

«Prendendosi parti dell’impero spagnolo, gli Stati Uniti divennero quel genere di potenza imperiale che un tempo avevano denunciato. Adesso stavano gareggiando con Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Giappone per ciò che il futuro presidente Theodore Roosevelt chiamava “la dominazione del mondo”.»

L’autore riporta una significativa dichiarazione di Woodrow Wilson, futuro presidente e padre della Società delle Nazioni, rilasciata nell’ottobre 1900, da storico a Princeton, in difesa dell’annessione statunitense delle Filippine:

«L’oriente deve essere aperto e trasformato, che noi lo vogliamo o non; devono essergli imposti gli standard dell’occidente; le nazioni e i popoli rimasti fermi attraverso i secoli, vanno stimolati e accelerati rendendoli parte del mondo universale del commercio e delle idee che hanno costantemente forgiato l’avanzata del potere europeo da un’età all’altra.»

Per le popolazioni, allora quella delle Filippine oggi quelle dei paesi che hanno sofferto l’intervento americano, il risultato è così lontano dagli enunciati di Washington da generare forte ostilità antiamericana.

Inoltre negli Stati Uniti, e non solo, quel “messianismo” è caduto, o comunque non risulta più convincente per ampi segmenti di popolazione.

Si resta convinti che interesse nazionale e sviluppo della democrazia dovrebbero tendere a coincidere. Al tempo stesso si è consapevoli che quell’auspicio, confermato dalla seconda metà del XX secolo, con il nuovo secolo ha iniziato a mancare di conferme, in quanto si è aperta, in diverse situazioni nazionali, una vera e propria questione democratica.  in stati anche per limitare gli eccessi della ricerca dell’interesse nazionale nella dialettica tra le nazioni.

Uno studioso di scuola realista, Luigi Bonanate, ha perorato l’ingresso dell’etica nelle relazioni fra gli stati, anche per limitare gli eccessi della ricerca dell’interesse nazionale nella dialettica tra le nazioni. 

La sua perorazione contro la guerra e per la vita può raccogliere una risposta positiva solo dall’apposizione di limiti alla competitività tra gli stati, che è imposta dalla ricerca esasperata dell’interesse nazionale. Occorre tornare alla pratica di meccanismi multilaterali in grado di contemperare le diverse esigenze, per il raggiungimento di una base minima di condivisione di interessi. In Etica e politica internazionale, nel 1992 così Bonanate espresse la sua speranza:

«Non è possibile che giunta alle soglie della sua stessa autodistruzione, la guerra finisca per negare se stessa invece che i suoi soldati e che – calpestata persino nella difesa dei beni più elementari, la vita, l’aria che respiriamo – anche l’umanità riesca a entrare in una nuova fase del suo progresso?»

(da La diplomazia dell’arroganza, L’Ornitorinco ed.)