I MEDIA CHE NON MEDIANO

di Diego Ventura

A seguito dei tremendi incendi che hanno interessato la città di Los Angeles, Elon Musk in uno dei suoi tanti post che pubblica giornalmente su X ha avuto modo di scrivere e constatare come i media tradizionali chiamati nell’anglosfera come “Legacy Media” stessero seguendo l’evento in modo carente, lento sotto il profilo degli aggiornamenti ora per ora e con delle lacune informative, rivendicando invece la velocità e la precisione del suo X, che oltre a fornire una tracciabilità capillare degli eventi, fungeva anche da strumento di mutuo soccorso con centinaia di utenti residenti in loco che fornivano aggiornamenti e avvisi su quali quartieri fossero più sicuri e lontani dalle zone interessate dal fuoco.

X a detta del suo padrone, pare essere una sorta di intermediatore universale, la “world square” la piazza del mondo dove tutti possono interfacciarsi tra di loro in modo diretto, conciso e veloce, gratuitamente. Una rivoluzione a detta di chi studia il settore dei media e della comunicazione, che può avere aspetti pericolosi, distorsivi e per certi aspetti tirannici. Musk sulla sua piattaforma ha oltre 200 milioni di follower, una libertà assoluta e l’impossibilità da parte dell’utente di bloccarlo per non visualizzare più i suoi post. Insomma, se usi X sai che devi sorbirti per forza i proclami megalomani di Musk, o così o si disinstalla l’app. Questo peraltro ha già portato un numero non quantificabile di utenti a disiscriversi dalla piattaforma per andare altrove, principalmente su BlueSky, Mastodon e Thread.

X sembra incarnare in tutto e per tutto le preoccupazioni di Umberto Eco sulla digitalizzazione di massa, ovvero la celebre massima in cui affermava che:

“i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel”.

Seppur con delle lodevoli eccezioni dal punto di vista divulgativo e politico, Nella media dei casi risulta molto difficile dare torto a Eco. Il web e i social forniscono una quantità di dati e informazioni ineguagliabile per chi ama lo studio e la ricerca e per chi utilizza l’intelletto come strumento di sussistenza. Dall’altro lato della medaglia, chi invece fa della chiacchiera e della caciara il suo passatempo preferito ha uno strumento di propaganda eccezionale, capace di raggiungere milioni di persone in poco tempo, vanificando e annullando completamente il duro lavoro di chi invece cerca di distinguere i fatti e le verità dalle bugie e dal falso.

Negli ultimi anni, specialmente dal periodo pandemico in poi si è andata diffondendo la forsennata ricerca di una presunta libertà di parola e di espressione, non che questa fosse minacciata da parte di un qualche potere autoritario, ma la libertà di espressione intesa come libertà di dire la qualunque, qualsiasi nefandezza passasse in testa all’utente o all’arringatore di folle in questione, rifiutando di assumersi la minima responsabilità individuale per le cose dette, aspetto peggiorato dall’anonimato, aspetto sempre garantito ci mancherebbe ma che ha i suoi aspetti negativi.  Ecco quindi, che diffondere informazioni false e pericolose sulle vaccinazioni, sulle implicazioni gravi del cambiamento climatico e su questioni molto delicate come la politica internazionale non sono più considerate azioni negative e da evitare, ma addirittura qualcosa di desiderabile.

Chiaramente e penso sia bene ricordarlo, le fake news uccidono, ad oggi a distanza di 5 anni sappiamo di quante migliaia di persone siano morte per non essersi vaccinate contro il Sars-Cov2 magari venuti a contatto con informazioni distorte che avevano il chiaro obbiettivo di spaventare. Ad oggi sappiamo anche come un certo tipo di propaganda (specialmente russa ma non solo) utilizzi gli escamotage sulla libertà di parola per organizzare azioni di destabilizzazione nei confronti di terzi, e penso al caso Rumeno o Georgiano.    

I Legacy Media a cui accennavo prima hanno ovviamente delle responsabilità: la crisi dell’editoria, della credibilità di certe testate e della poca tendenza del settore a innovarsi e a investire sul proprio capitale umano. Spesso mancano gli incentivi a investire in serie scuole di giornalismo e a improntare la mente degli studenti a ragionare in termini di analisi dei dati e del contesto.

Tuttavia, il ruolo istituzionale dei media tradizionali o quanto meno delle grandi testate che si sono affermate nel corso dei decenni rappresenta ancora un argine, forse l’unico, a questa marea di relativismo e/o nichilismo informativo, che rende tutto equivalente e niente falsificabile. Anche i social come Facebook hanno provato con il fact-checking a mettere un argine a questa marea, ma le convergenze politiche attuali e l’opportunismo di Mark Zuckerberg e degli altri “oligarchi” tecnocratici ci hanno anzi dimostrato che il problema è prima di tutto politico/culturale e solo secondariamente legislativo. Le piattaforme social in fin dei conti sono aziende, che per tirare avanti devono soddisfare una domanda. Quindi se il fact-checking viene vissuto dall’opinione pubblica come una forma di censura dittatoriale, è conseguente che ci sarà tutto l’interesse a rimuovere questo malcontento.

I Media quindi non mediano più, non c’è più un avvenimento che viene raccontato da terzi (i giornali). Ma il racconto che si auto-alimenta. Se il fatto/avvenimento raccontato non c’è è secondario, o al più si può creare al momento per sostenere la narrazione. Con l’AI che genera le immagini poi, ancora più semplice.

Quindi la domanda è: perché non si sente più la necessità di una verità dei fatti? Non ho la risposta definita a questo complesso dilemma filosofico, ma ho un paio di idee.

La prima, è fornita dal prof. Sebastiano Maffettone Al convegno “Memoria e Futuro”. Il prof. In una lunga riflessione sulla crisi della memoria e l’importanza della speranza, ad un certo punto affronta il medesimo problema, ascrivibile, secondo lui, a una mancanza di una realtà condivisa che ha a che fare con la disgregazione del pensiero normativo.

Insomma, caos che chiama altro caos. Questa crisi ha a che fare con la transizione culturale che la nostra società (diciamo principalmente occidentale, ma non solo ndr.) sta affrontando da circa una ventina di anni, con una impennata negli ultimi dieci. La crisi del pensiero normativo e l’imporsi del pensiero post-moderno che fa del relativismo e del soggettivismo un suo caposaldo non aiuta a rendere coeso il quadro, ma è anzi il sintomo di un periodo di rottura e di riassestamento degli equilibri. Una sorta di ciclo storico in cui a cambiamenti sociali importanti si impongono e con loro le proprie narrazioni.  Questo è più o meno quello che accadde con la prima rivoluzione industriale che tra le conseguenze più importanti dal punto di vista culturale ebbe l’affermarsi della borghesia sul piano sociale e il “nichilismo” così come descritto da Nietzsche sul piano culturale/filosofico. A onor del vero Maffettone non ha citato Nietzsche, è una mia aggiunta che, secondo me, aiuta a rendere meglio il quadro di questa situazione di rottura.

La seconda considerazione la faccio propria, anche se sono abbastanza sicuro che altri filosofi avranno trattato la cosa con più profondità. Nel caso specifico a mio avviso la cultura individualista, anch’essa un prodotto del post-modernismo, gioca un ruolo importante nel determinare la crisi del pensiero normativo. In un momento in cui la società ricopre un ruolo marginale a scapito della ragione individuale, l’avere torto in generale non è più vissuto come un incentivo all’approfondimento e all’accrescimento della propria conoscenza, ma come un affronto al proprio ego e al proprio senso di appartenenza ad una specifica tribù. psicologicamente l’io individuale e l’io collettivo sono due facce della stessa medaglia che si nutrono a vicenda. Il problema è quando l’io collettivo non viene normato e controllato, lasciando solo polarizzazione, sangue e botte da orbi.

Musk, Trump, Zuckerberg… e la lista potrebbe continuare per un altro po’, giocano proprio su questo fattore, sull’incontrollabilità dell’io collettivo che genera tanti piccoli Io incazzati, se vogliamo è il divide et impera dei nostri giorni, solo con mezzi infinitamente più potenti dell’esercito imperiale romano, che in fin dei conti si componeva di soldati armati di spade, archi e scudi di legno e informazioni che viaggiavano a velocità cavallo.

Per quanto riguarda l’azione politica, il problema della crisi del pensiero normativo richiede schemi del tutto nuovi che cerchino se possibile di abbandonare i rimasugli delle grandi ideologie novecentesche che per certi aspetti ancora caratterizzano alcune formazioni politiche. Se penso alla Gig Economy, alla frammentazione del mercato del lavoro che produce tanti lavoratori autonomi e indipendenti con pochi grandi centri finanziari che ne controllano i processi produttivi.

Se l’analisi Marxiana era adatta a descrivere i processi produttivi industriali di massa, come può aiutarci a descrivere i medesimi processi dal punto di vista individuale, in un contesto in cui l’ambiente “fabbrica” che poteva fungere da catalizzatore è quasi scomparso e dove il lavoratore è sia datore di lavoro di sé stesso che operaio, e dove l’unica contro parte è magari un altro lavoratore come lui che richiede nient’altro che un servizio.  E si badi bene, che l’economia è cruciale nel discorso dei media, perché una popolazione impoverita, si informa male, è arrabbiata ed è disposta a seguire e ascoltare chi vende facili soluzioni. 

Spero di non essere stato eccessivamente ripetitivo, anche se  di questi tempi repetita iuvant.