I FRATELLI BANDIERA

di Mario Pacelli

Il XIX secolo è quello delle società segrete, dei gruppi di cittadini che si riuniscono in segreto per il raggiungimento di uno scopo civile e politico – la libertà, l’uguaglianza, la lotta ai tiranni, l’unità nazionale, estromissione dello straniero dal suolo della Patria – anche in contrasto con le leggi vigenti. Spesso l’esigenza della segretezza è rafforzata dalla pregiudiziale repubblicana, che per chi governa in nome del monarca significa attentare alle istituzioni ed è fatto punibile con le

più gravi sanzioni.   

In Italia, la grande motrice è la Carboneria: nel suo filone si collocano molte  delle società segrete del tempo, alcune solo con pochi aderenti, altre più e meglio organizzate, tutte con l’obiettivo finale dell’unità nazionale. Altre società segrete sono riconducibili alla Massoneria, anche1esse con fini patriottici, nel più vasto quadro dei diritti di libertà e del progresso.

Una società segreta fu anche Esperia, fondata nel 1839 da Attilio ed Emilio Bandiera, due ufficiali della Marina Militare austriaca, figli di un ammiraglio della marina del regno Lombardo – Veneto che era parte della Imperiale regia marina (il Veneto faceva in quel tempo parte de impero asburgico).

Attilio (nato a Venezia il 24 maggio 181O) ed il fratello Emilio (nato anche lui a Venezia il 20 giugno 1819) scelsero di seguire la strada paterna. Frequentarono l’Accademia navale e, terminati gli studi, si arruolarono nella marina austriaca e presero parte alla campagna di Siria, contro il Pascià d’Egitto che voleva annettersi la regione.

In un viaggio nell’America del nord, Attilio conobbe Piero Maroncelli, al quale l’adesione alla Carboneria di Mazzini aveva fruttato dieci anni di carcere duro nella fortezza austriaca dello Spielberg: era stato successivamente (1830) graziato ed espulso negli Stati Uniti e a New York propagandava gli ideali carbonari e quelli del socialismo utopistico di Fourier.

Come risulta da una lettera successivamente inviata a Maroncelli da

Attilio, fu l’incontro con l’esule a far maturare nel giovane ufficiale della Marina austriaca il primo orientamento a favore della libertà e dell’unità nazionale, che fu poi alla base dello statuto della “Esperia”.

La società segreta veniva in esso dichiarata a favore dell’unità d’Italia, nel segno di una repubblica a cui si sarebbe dovuto giungere gradualmente attraverso un assetto inizialmente federativo del nuovo Stato. L’Italia veniva ritenuta ormai matura per la libertà e l’indipendenza dallo straniero: per tradurre in pratica la sempre più diffusa aspirazione alla indipendenza nazionale era necessaria una salda organizzazione, quale voleva essere l’Esperia, per concentrare ed unificare tutte le forze esistenti nel Paese che si proponevano quel fine. In polemica con le ideologie materialistiche, nello statuto della società si raccomandava agli adepti “di mantenersi o rientrare nella credenza di Dio” poiché in questo modo “l’uomo si arricchisce di sovrannaturali rimedi contro la sventura”.

Il programma dell’”Esperia” richiamava in qualche modo quello della Carboneria, ma al tempo stesso se ne distaccava sia a proposito della pregiudiziale repubblicana che per quanto riguarda l’importanza religiosa: Mazzini stesso (“Ricordi dei fratelli Bandiera”) volle precisare, sulla base della sua corrispondenza con i due fratelli, che i contatti con loro avevano avuto inizio nella seconda metà del 1842, cioè dopo la costituzione della società segreta, ciò che era anche un modo per declinare ogni responsabilità su quanto avvenne più tardi.

Da parte loro i Bandiera conoscevano certamente il pensiero mazziniano, come dimostra una lettera a Mazzini di Attilio Bandiera del 15 agosto 1842, ma è dubbio che ad esso i due fratelli si volessero conformare nello statuto dell”‘Esperia”: certo è che gli aderenti alla società segreta da loro fondata crebbero rapidamente specie nel Veneto e tra gli ufficiali di origine veneta della marina austriaca.

Nei primi mesi del 1842 Attilio Bandiera incontrò a Malta Nicola Fabrizi, che, dopo aver fatto parte dei dirigenti della Giovane Italia, si era trasferito a Malta per organizzare la Legione Italica, che della Giovane Italia avrebbe dovuto costituire il braccio armato per promuovere l’insurrezione e la guerra per bande nell’Italia centro-meridionale. Fabrizi tentò per più di un anno di convincere Attilio Bandiera a far confluire “Esperia” nella Giovane Italia e nella Legione Italica, ma, come scrisse in una lettera del 2 ottobre 1843, senza riuscirvi in quanto Bandiera insisteva per l’autonomia dell”‘Esperia” a proposito delle azioni insurrezionali. Nella seconda metà del 1842, dopo un incontro a Londra tra Attilio Bandiera e Mazzini, fu deciso un collegamento tra l’”‘Esperia” e la “Giovane Italia”. Fu più una affermazione di principio che un fatto concreto: nello stesso anno i Bandiera pensarono che fosse il momento di dare inizio alla guerra per bande nel Centro-Sud, mentre Mazzini riteneva che con le navi austriache di cui i Bandiera e i loro amici pensavano di impadronirsi si potesse operare uno sbarco sulle coste liguri contemporaneamente ad altre iniziative insurrezionali nell’Italia centrale e in Sicilia. Per mancanza dei fondi necessari non fu fatta né l’una né l’altra cosa.

Negli ultimi mesi del 1843 i due fratelli ebbero destinazioni diverse: Emilio tornò a Venezia come aiutante di bandiera dell’ammiraglio

Paolucci mentre Attilio continuava a navigare come aiutante di bandiera del padre sulla nave ammiraglia del regno Lombardo-Veneto.

Nell”‘Esperia” era presente tra gli altri Tito Vespasiano Micciarelli, inviato da Mazzini per prendere contatto con gli appartenenti alla società segreta: per motivi restati sconosciuti, Micciarelli informò l’ambasciatore austriaco in Turchia dell’attività segreta dei due fratelli e delle complicità di cui godevano nella Marina austriaca.

Entrambi avvertirono in tempo il pericolo e riuscirono a sottrarsi all’arresto fuggendo a Corfù dove li raggiunse la madre, che cercò in ogni modo di farli recedere dai loro propositi rientrando nei ranghi della marina austriaca. I due fratelli rifiutarono: in una lettera dell’8 maggio 1844 al comando della marina austriaca, che li accusava di tradimento, scrissero che la loro scelta fra “il tradire la patria e l’umanità o l’abbandonare lo straniero e l’oppressore” era la seconda.

Attilio ed Emilio Bandiera continuarono ad operare per uno sbarco sulle coste italiane che avrebbe dovuto dare origine ad un vasto movimento insurrezionale. Pensarono ad uno sbarco in Maremma per poi dirigersi su Roma e ad una missione ad Ancona insieme a Niccolò Ricciotti che doveva svolgere una missione per incarico di Mazzini (preparare moti insurrezionali). Abbandonarono il progetto per difficoltà finanziarie nell’appennino calabro-lucano.

Progettarono uno sbarco in Calabria, dove nel mese di marzo era scoppiata una rivolta, sedata in breve tempo: nel processo che ne seguì furono condannate a morte 21 persone, di cui però solo 6 vennero giustiziate. Visto l’esito sfortunato della rivolta, Mazzini da Londra e Fabrizi da Malta cercarono di dissuadere i fratelli Bandiera dal tentativo: a loro avviso non esistevano le condizioni per l’impresa in quanto mancava qualsiasi accordo con i potenziali rivoltosi, le cui forze d’altra parte erano, come scrisse Fabrizi ai Bandiera, “disperse o paralizzate”.

I Bandiera proseguirono nella realizzazione del loro progetto, benché informati sul fallimento della sommossa. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 1844, a bordo di una piccola nave, la San Spiridione, si imbarcarono a Corfù con altri 18 patrioti, il corso Pietro Boccheciampe e un vecchio brigante calabrese, Giovanni Meluso, che avrebbe dovuto fare da guida, ed approdarono la sera del 16 giugno alla foce del fuime Neto, nei pressi di Crotone, con l’intenzione di procedere verso Cosenza e suscitare l’insurrezione.

Non sapevano, ancora una volta, di un avvenuto tradimento: già a Corfù uno degli appartenenti all”‘Esperia”, Domenico De Nobili, aveva informato dell’impresa il console austriaco e quello del Regno delle due Sicilie, e un brigantino austriaco seguiva la nave dei Bandiera fino dalla partenza.

A rendere ancora più difficile la situazione, il corso Boccheciampe, appena sbarcato, constatato che non era in corso alcuna rivolta, si era affrettato, per salvare la pelle, ad andare ad informare di quanto stava avvenendo il soprintendente borbonico di Crotone.

Il 19 giugno il gruppo dei Bandiera venne bloccato nella località della

Stragola nel comune di San Giovanni in Fiore, dalle guardie civiche aiutate dai contadini del luogo: nel conflitto a fuoco che ne seguì furono uccisi due patrioti e gli altri presi prigionieri: due riuscirono a fuggire ma furono poi costretti a costituirsi vista la impossibilità di sopravvivere in un ambiente ostile. Solo il brigante Meluso riuscì ad eclissarsi profittando della conoscenza dei luoghi.

Il processo si svolse a Cosenza dal 15 al 24 luglio: le tre lettere che Attilio Bandiera scrisse al re Ferdinando 11° di Borbone rivendicando le nobili finalità dell’iniziativa, invitandolo a concedere la Costituzione e a dichiararsi Re d’Italia, e dicendosi in possesso di segreti che avrebbe rivelato in un incontro con lui, non ebbero alcun seguito. Attilio ed Emilio Bandiera e gli altri 17 partecipanti alla impresa furono condannati a morte mentre il Boccheciampe ebbe una condanna a soli 5 anni di reclusione. Solo i due fratelli ed altri sette loro compagni furono fucilati (25 luglio) nel vallone di Rovito, dove oggi si trova un piccolo monumento; gli altri nove condannati ebbero la grazie dal re Ferdinando Il.

Secondo una testimonianza al processo contro Nicotera, uno dei catturati, scomparve dopo l’eccidio una cospicua somma che il suo gruppo aveva con sé per finanziare l’impresa: non ebbe alcuna risposta. Una denuncia di Mazzini provocò un dibattito alla Camera dei Comuni inglese: risultò che il governo inglese era probabilmente al corrente della spedizione dei Bandiera e ne aveva forse informato quello austriaco e quello napoletano.

Le salme dei fucilati avrebbero dovuto, secondo gli ordini, essere gettate nella fossa comune: furono salvate dal curato del luogo e  sepolte nella cattedrale di Cosenza il 15 marzo 1848, dopo la rivolta calabrese. Durante la restaurazione borbonica furono riesumate per essere gettate nel fiume Neto: di nuovo nascoste, furono sepolte da Bixio nel 1860, quando la Calabria fu occupata dai garibaldini.

Quelle dei due fratelli Bandiera e del loro amico Domenico Moro furono successivamente traslate a Venezia il 18 giugno 1867, quando era finito da circa un anno la dominazione austriaca sulla città, e sepolte nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo.