di Paolo Nencini

Figura 1: Così recitava la didascalia: “Il diametro dei tondini è proporzionato alla estensione delle singole osterie già in esercizio. Altri trentadue osti hanno chiesto al Municipio di aprire nuovi spacci di vino, ma non trovano più locali disponibili.”
Probabilmente, al di fuori della cerchia specialistica dei beni culturali e dell’archeologia, non è molto conosciuta la figura di Giacomo Boni di cui quest’anno cade il centenario della scomparsa. Nel suo tempo, tra XIX e XX secolo, Boni fu archeologo innovativo che godette di grande reputazione come testimoniato dalle lauree honoris causa ad Oxford e Cambridge e dalla nomina a senatore del regno per i “meriti eminenti” con i quali aveva “illustrato la Patria”. Particolarmente importanti furono gli scavi che condusse a Roma nel Foro e sul Palatino al punto che, come declamò il ministro della pubblica istruzione Pietro Fedele nella sua commemorazione in Senato il 16 novembre 1925, le sue ceneri furono deposte in un’urna sul Palatino “fra i mirti ed i lauri che egli stesso educò: come in vita, così dopo la morte, egli rimarrà del Colle sacro il genius loci e la sua memoria si rinnoverà col perenne rinnovarsi delle primavere latine che egli seppe far fiorire in questi austeri silenzi.”
Tanta retorica ben si adattava al rapporto che Boni aveva avuto con l’oggetto dei suoi scavi, un rapporto che non era stato meramente scientifico ma, come è stato osservato, era trasceso da quello ben più profondo con la romanità, “intriso di sentimenti mistici e sacrali che gli derivavano da un’intensa frequentazione con gli ambienti estetizzanti inglesi e, in particolare, con John Ruskin” (Salvatori P. S., “Liturgie immaginate: Giacomo Boni e la romanità fascista”, Studi storici, 2012; 53: 421-438). Il suo autentico culto della romanità, interpretata in una dimensione francamente reazionaria, non poté non contribuire all’entusiasmo con cui Boni collaborò con il Fascismo nascente che nella romanità cercava un posticcio mito di fondazione.
Collaborazione di breve durata perché presto interrotta dalla morte dell’archeologo, ma che permise, tra l’altro, di fissare definitivamente la rappresentazione del fascio littorio che, elaborata per la moneta da due lire emessa nel 1923, divenne il 12 dicembre del 1926 emblema dello Stato. Fascio littorio che in una lettera al ministro delle finanze Alberto de Stefani aveva definito “antico emblema romano della Giustizia purificatrice da cui dipende la salvezza avvenire della Patria Nostra” e quindi di quell’impero della legge che era “obiettivo supremo del Governo presieduto da Benito Mussolini.” (citata in: Pilutti Namer, M., “Giacomo Boni (1859-1925).
Gli anni del Dopoguerra e il rapporto con Eva Tea”, Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, 2016; 30: 171-189). È probabile che Boni si sia dedicato con ancor più entusiasmo a riprodurre una serie di rituali religiosi romani di carattere propiziatorio, quali il ludus Troiae, i ludi Capitolini, i Lupercalia e il mundus patet, per celebrare il primo anniversario della marcia su Roma (Parodo, C., “Roma antica e l’archeologia dei simboli nell’Italia fascista”, Medea, 2016; II: 1-27).
Questo articolo tuttavia si propone di evidenziare un aspetto meno noto della biografia di Giacomo Boni, quello della breve ma intensa attività, soprattutto pubblicistica, di lotta all’alcolismo, o meglio al vinismo ché ai suoi tempi era il vino la bevanda alcolica che quasi esclusivamente gli italiani consumavano. Il motivo che spinse Boni, negli ultimi anni della sua vita, a spendere il suo prestigio in favore di una così meritoria battaglia sociale è stato individuato in un desiderio di “mettersi al servizio della popolazione”, desiderio che lo portò ad interessarsi anche di produttività delle colture e delle tecniche di concimazione dei campi, di metodi per produrre energia da fonti rinnovabili, di miglioramento della qualità dell’alimentazione dei bambini (Pilutti Namer, M., Giacomo Boni: storia, memoria, archeonomia; 2019; p.105). Una lotta viziata da un evidente dilettantismo e condotta da posizioni fortemente conservatrici e moralistiche.
Certamente nella lotta all’alcolismo Boni non fu un pioniere se teniamo conto che Cesare Lombroso aveva scritto Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia nel 1880, mentre era del 1886 L’alcolismo. Sue conseguenze morali e sue cause del medico e docente di statisticaNapoleone Colajanni, risalendo infine al 1892 L’alcolismo. Studio sociologico-giuridico di Adolfo Zerboglio, giurista ed esponente del partito socialista. Questi saggi rappresentavano l’espressione alta della consapevolezza dei danni sanitari e sociali che il consumo eccessivo di vino provocava, una consapevolezza che si andò diffondendo con la formazione di leghe della temperanza che confluirono nella Federazione antialcolica italiana il cui primo congresso nazionale si tenne a Venezia nel 1904 e indusse, infine, nel 1913, il parlamento a varare, dopo un travagliato iter, la prima legge organicamente dedicata a combattere l’alcolismo.
La legge che, tra l’altro, prescriveva l’innalzamento a 16 anni del limite d’età per accedere alle bevande alcoliche e il limite del numero delle rivendite a una ogni 500 abitanti, fu ritenuta da molti troppo timida, ma rappresentava pur sempre un argine ai forti interessi della filiera vitivinicola che vedeva nel consumo interno l’inevitabile sbocco di una sempre eccedente produzione vinicola, e un primo tentativo di contrastare le conseguenze negative del radicamento sociale del vino, il cui consumo era esteso a tutta la popolazione, quasi senza limiti di età; a tal proposito basti citare una indagine condotta nel 1908 in una scuola elementare milanese che rilevava che il 17,3% degli scolari beveva fuori dei pasti e frequentava le osterie con i genitori.
Indurre la popolazione al bere sobrio in presenza di forze contrarie così efficaci come la tradizione e gli interessi economici della vitivinicoltura e della distribuzione, era impresa che la mera promulgazione di una legge non poteva portare a compimento. Infatti la disponibilità pro capite di vino che aveva raggiunto il massimo di 124,7 litri pro capite per anno nel primo decennio del nuovo secolo, era ancora di 117,2 nel decennio 1911-1920; a ciò si associava il mantenersi di una forte diffusione del bere anche infantile come dimostrato dalla osservazione che a Roma nel 1924 su 7.374 alunne di varie scuole elementari risultavano bevitrici abituali di vino il 56,29% e bevitrici occasionali il 19,51%; le conseguenze sanitarie di un bere così diffuso non declinavano, con i ricoveri per le varie forme di psicosi alcolica che erano addirittura cresciuti dai 6,8 casi per 100mila abitanti del 1908 ai 9,1 casi del 1926.
Il raffronto con i paesi dell’Europa centrosettentrionale permetteva comunque di escludere che l’Italia fosse colpita da una emergenza sociosanitaria legata al consumo di alcolici e si potrebbe parlare quindi di un ingiustificato allarmismo, ma è più probabile che fosse mutato lo “spirito del tempo” e lo fosse di conseguenza la percezione di quale dovesse essere il limite socialmente accettabile dell’assunzione alcolica. Giacomo Boni, che del problema non aveva alcuna competenza professionale, fu interprete esemplare di questo mutamento di prospettiva e non è certo un caso che i suoi interventi appassionati fossero affidati alle pagine della Nuova Antologia, rivista particolarmente influente poiché “così rappresentativa allora delle opinioni medie del ceto colto italiano”, come l’ha definita lo storico Federico Chabod.
L’articolo di maggior peso (ben 24 pagine) già nel titolo, “Il nemico”, indicava il suo obiettivo: “liberarci dalla più funesta delle aberrazioni, dalla causa precipua ed identificatrice di rovina e squilibrio, di abbrutimento e schiavitù agli individui, alle famiglie ed alla compagine sociale.” (Boni G., “Il nemico”, Nuova Antologia, 1921; CCXI: 239-263). Affidandosi al parere di specialisti -un fisiologo, un farmacologo, un neuropsichiatra- e ad una sparsa letteratura scientifica, forniva un lungo elenco di effetti nocivi del bere che colpivano senza alcuna distinzione tra sobrietà e vinismo: “[…] anche in minima dose, le bevande alcooliche guastano a lungo andare il cervello, alterano il fegato, lo stomaco ed i visceri”. Sono effetti che si estendevano alla progenie: “la prole numerosa di tali incoscienti e imprevidenti beoni è debole, malaticcia, rachitica e segnata dal vizio precoce.
Ben pochi raggiungono la vecchiaia; finiscono i più negli ospedali, nei manicomi, nei tubercolari.”; in un precedente articolo si era così espresso: “Le colpe d’intemperanza dei genitori ricadono sui figli; se questi riescono a sopravvivere nei primi mesi, son minacciati dall’idiozia o dall’epilessia o vengono uccisi più tardi dalla meningite tubercolare o dalla tisi.” (Boni G., “Porta pesi”, Nuova Antologia, 1920; CCIX: 367-372). Non v’è dubbio che l’archeologo aveva recepito senza incertezze la teoria della degenerazione, così come ideata da Auguste Morel e sviluppata da Cesare Lombroso, che vedeva nei veleni e in particolare nell’alcol i principali agenti di degenerazione: la cosiddetta eredità alcoolica per cui “i degenerati procreano dei bevitori e i bevitori procreano dei degenerati”, come sintetizzava un farmacologo del tempo.
Questa accettazione acritica non deve meravigliare poiché la teoria della degenerazione dominava quasi incontrastata; così ad esempio si esprimeva l’autorevole neuropsichiatra Giuseppe Antonini, che di Lombroso era allievo e al cui parere si affidava Boni: “Tutti sono d’accordo nell’ammettere il cospicuo contributo che l’alcolismo dà alla degenerazione, e quale sia l’influenza nociva non soltanto per la morbidità in generale di tutti gli organi e specie del cervello che esercita l’intossicazione alcolica, ma anche per lo stesso lento processo di intossicazione delle cellule germinali; e come sia ormai sfatata la teoria sulla invulnerabilità del plasma germinale.” (Antonini G., “Alcoolismo ed eugenetica”, Quaderni di Psichiatria 1925; XII: 29-30).
Inevitabilmente erano i poveri delle grandi città, molte delle quali in rapida industrializzazione, ad essere oggetto della narrazione che Boni faceva del vinismo, non solo perché tra costoro si individuavano più frequentemente le sue vittime, ma anche per la facilità con cui si poteva scambiare le cause con gli effetti. L’archeologo era così portato a vedere nel lavoro nel “macchinoso opificio” dove “il lavoratore si abbrutisce e si riduce pari ad un ingranaggio di macchina” la causa principale della sua frequentazione delle bettole, ma non ha difficoltà a condividere l’opinione espressa da un patologo eminente (il senatore Alessandro Lustig) che “Le conquiste delle classi lavoratrici -aumento di salario e riduzione delle ore di lavoro- hanno aumentato il consumo delle bevande alcoliche perché molte delle ore tolte all’officina sono date alla bettola e all’osteria” (Boni, 1920, cit.).
Del resto, di suo, aveva notato che i facchini veneziani, “terminato il breve orario di lavoro”, durante il quale avrebbero comunque bevuto la strabiliante quantità di sei litri di vino, prima di tornare a casa si sarebbero fermati all’osteria dove avrebbero “sperperato ogni avanzo della eccessiva mercede” (Boni, 1921, cit.)! Che quella mercede fosse eccessiva non lo pensava di certo Napoleone Colajanni, che nel pieno della crisi degli anni Ottanta, aveva per primo colto il nesso tra ciclo macroeconomico e andamento dell’alcolismo, notando che quest’ultimo si estendeva “man mano, che si fa[ceva] più intensa e più minacciosa la crisi attuale”, e nemmeno Adolfo Zerboglio che individuava in migliori condizioni economiche, lavorative e abitative dei lavoratori lo strumento di prevenzione dell’alcolismo: “Perché le abitazioni malsane, oscure, rintanate in viottoli osceni, dove vengono ora costretti annidarsi i miseri respingendo l’operaio da casa sua, invitandolo alla bettola”.
Per parte sua il grande igienista Angelo Celli osservava che il troppo bere è causa ma anche effetto della miseria: “Quando uno deve lavorar molto e si nutre poco, necessariamente prova il bisogno di dare un fuoco rapido alla sua macchina, e quindi ricorre all’alcol. L’operaio che, mal vestito, di primo mattino, deve recarsi al lavoro, cerca pure di riscaldarsi con l’alcol.” (per queste citazioni, vedi Nencini P., La minaccia stupefacente, 2017, p. 140 n.9). Questi studiosi, pur di differente formazione, erano accomunati dall’impegno politico in favore dei lavoratori. È importante tenerlo presente perché negli scritti di Boni non di rado si coglie la critica al movimento operaio di non fare abbastanza per combattere il vinismo tra i lavoratori; cita, ad esempio, il senatore Lustig che ai rappresentanti delle classi operaie rimproverava appunto “di non aver tentato finora alcuna propaganda educativa contro l’intemperanza e contro l’alcoolismo.” (Boni, 1920, cit.).
Rimprovero quanto mai ingiusto poiché quei rappresentanti da anni si battevano contro l’alcolismo tra i lavoratori; si guardi l’ordine del giorno che, su proposta di Zerboglio, l’XI congresso del Partito Socialista, che si tenne a Milano nel 1910, approvò: “[…] ritenuto che l’alcolismo, mentre costituisce un grave danno per la società tutta quanta, attenta in particolar modo alla integrità fisica delle classi lavoratrici e a quelle energie morali, solo tesoreggiando e sviluppando le quali, esse si rendono capaci di provvedere alla gestione diretta della produzione, nella quale è la condizione della integrale loro emancipazione; raccomanda al proletariato la più scrupolosa astensione da ogni abuso di bevande alcooliche e l’adesione e l’aiuto alla propaganda antialcoolista; e impegna il Partito a sollecitare una energica legislazione, diretta a ostacolare la pratica dell’alcolismo a combatterne le conseguenze” (Zerboglio A., Critica Sociale, 1910; XX: 267-269.). E se nel 1913 l’Italia ebbe finalmente una legge che regolava il consumo delle bevande alcoliche lo si deve soprattutto all’impegno del Partito Socialista e alla sagacia politica del suo segretario Filippo Turati (Nencini, 2017, cit. pp. 159-164).
Come ovvio, Boni faceva seguire alle denunce proposte di cui quella sulla conversione della filiera vitivinicola in una compiutamente alimentare appare la più originale e articolata. Portando l’esempio delle esperienze innovative californiane di conservazione dell’uva, invocava infatti il reclutamento delle indubbie competenze italiane per aumentare la produzione d’uva da tavola e per sperimentare nuove modalità di conservazione e di imballaggio. Per il resto, Boni faceva sue le proposte che circolavano da anni, a partire da quella di una effettiva riduzione del numero delle bettole. Era questo il problema più sentito poiché la già permissiva norma che prevedeva un esercizio ogni 500 abitanti era disapplicata, da cui l’appropriata osservazione di un redattore della Nuova Antologia che all’Italia si poteva ben applicare la “formula semi-cavouriana di libera osteria in libero stato” (1915; CLXXX, pp. 298-301).
Di suo Boni forniva una mappa, per altro nemmeno commentata nel testo ma che si spiegava da sola, delle bettole nel romano Rione Monti, in ciò erede in tutti i sensi dell’antica Suburra, e che qui merita di essere riportata perché esemplificativa delle dimensioni ipertrofiche del fenomeno (Boni G., “Contro il vinismo. Agli operai italiani”, Nuova Antologia, CCIX: 371-374.).
In conclusione, è difficile dire quanto le iniziative di Boni contro il vinismo, al di là della cortese considerazione che le più alte cariche dello Stato regolarmente gli esprimevano, abbiano inciso politicamente. In fondo tali iniziative appartenevano a quella che Gramsci aveva definito “la lotta contro l’alcolismo fatta per mezzo delle conferenze e dei libri stampati e che non cava il solito ragno dal solito buco” e tradivano la loro occasionalità, frutto di una personalità, quella di Boni, che Benedetto Croce tratteggia in maniera spietata: “Dalla sua amicizia con gli esteti socialisti d’Inghilterra gli era venuta una costante, sebbene vaga, disposizione umanitaria di riformatore sociale […] In fondo, come altri di cotesti estetizzanti italiani, era privo di serio sentimento politico e ignaro dei doveri e degli sforzi che questo comporta […]” (Croce, B. 1939 Aggiunte alla «Letteratura della Nuova Italia». XXXIX.Angelo Conti e altri estetizzanti, in «La Critica», XXXVII,pp. 177-189.).
I suoi scritti contro il vinismo restano comunque indice della crescente consapevolezza della incompatibilità del bere tradizionale con le nuove responsabilità del cittadino in una società in via di industrializzazione. Una consapevolezza che stava certamente incidendo sui consumi di vino tanto da indurre Arturo Marescalchi, esponente di prima grandezza della viticoltura italiana dell’epoca, ad una loro difesa un po’ sopra le righe di quei consumi: “Ciò che è indispensabile è di risollevare il consumo del vino” ricorrendo “a ogni pubblicità e propaganda efficace per persuadere che il vino è utile, che fa bene, che deve continuare a letificare la mensa di tutti gli italiani. È necessario persuadere i medici tutti ad aiutare questa doverosa campagna.” (Marescalchi, A. “Le condizioni presenti dell’economia agricola italiana. Il problema vinicolo”, Nuova Antologia, 1932; CCLXXXI: 81-92).
Troppo tardi ormai: i nuovi stili di vita stavano rendendo il bere sobrio una esigenza ineludibile.
Paolo Nencini
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