Il tempo delle parole è finito dentro lavacri di sangue
di Luciano Pilotti
Dopo quasi 60mila morti in 20 mesi di Calvario e una Striscia di Gaza ridotta a brandelli e monconi non c’è più alcun rapporto tra la tragedia del 7 ottobre e la condanna a morte di un popolo intero.
Come dicono anche David Grossman e Anna Foa, di una distruzione con migliaia di bambini deglutiti nell’oblio ormai si è rotta ogni “proporzionalità” di sanguinosa contabilità, perchè inceppata ogni umanità, cancellate tutte le tracce di civiltà come quelle della pietà che anche ogni soldato dovrebbe sempre rispettare almeno pensando a un dopo. Ossia, tutte le Leggi di Noè incastonate nel Talmud sono state seppellite e per la prima volta dalla nascita dello Stato di Israele.
Inoltre, riattizzando la velenosa ripresa dell’antisemitismo in tutto il mondo e in USA ed Europa in particolare, mettendo a rischio la sicurezza stessa di Israele per il presente e per il futuro in ogni luogo come esito tragico e devastante. Perché il processo distruttivo avviato a Gaza non ha portato né all’eliminazione di Hamas (obiettivo impossibile secondo ex-capi dello Shin Bet e del Mossad) né al ritorno degli ostaggi che continuano a mancare all’appello, vivi o morti.
Dunque, con Israele che nonostante la potenza di fuoco e tecnologica sembra “perdere la guerra” con il mondo che gli volta le spalle per la prima volta dalla formazione dello Stato Sionista nel 1957. Che sta peraltro allontanando anche lo stesso mondo arabo moderato in un isolamento politico-militare impensabile “raffreddando” lo stesso Trump nonostante le tante e confuse oscillazioni e sbandamenti, peraltro utilizzati da Netanyahu in modo sconsiderato.
Servono allora fatti perché il tempo delle parole e’ finito se vogliamo come occidentali fermare lo scempio di civiltà operato da Netanyahu e supportando il popolo israeliano ad uscire dalla paralisi nella quale lo ha portato questo Governo di estrema destra teocratica che sembra cercare una illusoria “Guerra Finale” forse solo per salvare se stessa senza una direzione, una missione e un futuro che protegga il popolo israeliano da una insensata e cieca furia messianica sostenuta da una artificiosa polarizzazione radicale. Confermata, peraltro dalla decisione dolorosa di molti israeliani di lasciare il paese perché si percepiscono ormai insicuri e senza protezioni in quella “Terra Promessa” che è sempre stata della Speranza nell’Attesa che fu da dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana in un viaggio millenario che rischia di arenarsi ancora una volta nell’angolo tra le rive del Mar Rosso e del Mediterraneo.
Cosa serve?
Intanto, serve in primo luogo, un atto ineludibile per quanto simbolico (ma nemmeno tanto visto che 147 paesi ONU lo hanno adottato su 193 assieme allo Stato del Vaticano) riconoscere lo Stato Palestinese nell’interesse sia dei palestinesi e sia della sicurezza di Israele sempre più “fragile” nel mondo oltre che al proprio interno.
Poi – in secondo luogo – cominciare a interrompere le forniture di armi ad Israele e tutti gli accordi che intercettano progetti di sviluppo accademici (e non) double use.
Poi – in terzo luogo – è il momento di affidare con urgenza gli aiuti e l’acqua ad una authority indipendente terza che li distribuisca secondo criteri di equità e giustizia con il supporto di Ons, Unrwa ma anche di UE e USA senza escludere l’ANP quale chiave vera per controllare Hamas. Aprire – in quarto luogo – un tavolo di trattativa parallela a quelli già in corso (tra Israele, Usa, Paesi del Golfo per mediare con Hamas la restituzione degli ostaggi) tra ANP-Autorità Nazionale Palestinese (da includere necessariamente negli “Accordi di Abramo”) e Israele per definire la “governance” di Gaza nel “dopoguerra” (perché ci si dovrà arrivare!) con il supporto dell’ONU come arbitro super partes e l’UE e il Vaticano stesso continuando ad esercitare pressione sul Governo d’Israele per rinnovare una tregua che fermi l’insensata carneficina di civili inermi.
Verso la speranza per una rinnovata convivenza
Certo tutte misure che devono interagire perché insistono sugli stessi fattori interdipendenti, ma tenendoli anche distinti per provare ad esplorare in concreto soluzioni per un popolo che sta per essere sterminato se non sottoposto alla “soluzione finale” in un tragico accartocciarsi di un rovesciamento della storia.
Nella certezza che quella Terra di Abramo è la Palestina e sulla quale devono potere convivere due popoli e due Stati – magari in una Federazione come suggerisce il filosofo ebraico Omri Boehm – in pace e nel rispetto, riconoscendosi reciprocamente come fu nel Grande Sogno di Rabin che per quello fu assassinato. Da qui abbiamo il dovere e l’urgenza di ripartire per avviare una pacificazione essenziale per tutto il Medio Oriente che è impensabile senza il Popolo Palestinese come agente civile in una area proiettata verso una modernità possibile e antidoto alle degenerazioni panarabiche. Perché ormai sono state superate tutte le linee rosse come riconosciuto anche da esponenti del Governo italiano (Tajani e Crosetto) anche di supporto alla trattativa USA per la liberazione degli ostaggi, seppure nei “timidi silenzi” di Giorgia Meloni su Netanyahu e il suo “vuoto strategico”.
Qualcuno disse, di là dai tempi, “alzati e cammina” e oggi ogni uomo democratico deve alzarsi e andare nelle piazze a testimoniare la speranza e infondere coraggio alla politica per non arrenderci a lasciare una eredità di odio e di indifferenza pensando che basti proteggere api, orsi e delfini. No, non basta, abbiamo il dovere di proteggere anche l’umano che è in noi con ogni palestinese e ogni israeliano (e certo con ogni ucraino) senza i quali non potremo vivere oltre perché frammenti di una stessa umanità che rischia di spegnersi lasciando pezzi nel deserto di un conflitto secolare.
Uomini democratici, allora, “alziamoci e camminiamo a gridare la speranza” con Leone XIV perché già ieri era tardi e potremmo non vedere alcun domani nel buio della coscienza e della mente, nell’oscuramento della compassione e della pietas, nella hybris dell’egoismo!