Bisogno, diritto, natura
Io ritengo che nel vasto ventaglio delle tipologie degli incontri pubblici a sfondo culturale (convegni, seminari, workshop) la presentazione di un libro sia di gran lunga quella più interessante. L’interesse nasce, a mio modo di vedere, dal fatto che l’autore del libro, solitamente sempre presente, può osservare come il suo prodotto culturale sia riuscito ad attivare nei presentatori riflessioni e percorsi di pensiero diversi. Questa diversità è arricchente anche per gli stessi presentatori, manifestando la bellezza della diversità di vedute e della divergenza di prospettive scaturite però dalla lettura del medesimo libro. I gentili ospiti presenti, inoltre, hanno la possibilità di fruire di un quadro positivamente eterogeneo dato dalle prospettive diverse che al tavolo dei relatori si confrontano, si intrecciano e si arricchiscono vicendevolmente dando vita ad un vero e proprio simposio culturale. Questa è la bellezza e soprattutto la potenza del libro, che quando è onorata con una lettura critica e consapevole, riesce davvero a trasformare gli animi trasformandole in sorgenti di ulteriori pensieri.
Ciò che ho detto in questa lunga premessa ha trovato sicuramente conferma nella mia esperienza di lettura del libro di Gennaro Ponte (La casa non a caso. Ritornare Persona dopo la povertà, Santelli, 2021), del quale ho apprezzato molto la chiarezza espositiva e la costruzione argomentativa. A questo proposito, relativamente alla costruzione argomentativa, vorrei confidare una cosa. Nel mio percorso di studi non ho mai affrontato in modo sistematico e scientifico il tema delle politiche sociali volte al contrasto della povertà estrema, né ho studiato mai in modo veramente strutturato il fenomeno della grave emarginazione caratterizzante la condizione di homeless. Ho letto quindi con molto interesse il secondo capitolo del libro, dedicato alla politica dell’Housing First al punto che, dopo averne terminato la lettura, ho scaricato e studiato a fondo anche le Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia (approvato in Conferenza Unificata il 5 novembre 2015) e la Guida all’Housing First in Europa (pubblicate nel 2016 dalla Federazione Europea delle Organizzazioni Nazionali). Ma c’è di più. Tanto è stato l’interesse con cui ho letto i paragrafi 4.3 (Abitare: spunti sociologici) e 4.4 (Brevi note sul senso della casa) che alla fine ho non resistito all’idea di ampliare la mia biblioteca personale mettendo in carrello alcuni testi citati dall’autore (Le case dell’uomo. Abitare il mondo, che l’autore cita a pagina 113; Lo spazio vissuto. Luoghi educativi e soggettività di Vanna Iori che è citato a pagina 120 – anche se di difficilissima reperibilità; e infine il libro di Carla Pasquinelli intitolato La vertigine dell’ordine. Il rapporto tra Sé e la casa citato a pagina 119). Non è finita qui. Proprio alla fine del paragrafo 4.4 Gennaro Ponte fa una riflessione assai significativa sull’essenza della casa, intendendola come un «punto nevralgico del mondo», in grado di sintetizzare e intersecare una «linea verticale, che esprime il collegamento tra cielo e terra, con una linea orizzontale che rappresenta le dinamiche del mondo» (p. 121). Dopo la lettura di questo passo ho ripreso in mano dopo moltissimo tempo il testo di una conferenza di Heidegger, Costruire, abitare e pensare, contenuta nella raccolta Saggi e Discorsi curata da Gianni Vattimo per l’editore Mursia. Era un testo che non riprendevo in mano dai tempi del corso di laurea triennale in Filosofia e Storia e che però il pregnante pensiero dell’autore mi ha permesso di riscoprire. In tempi recenti, infatti, mi sono occupato molto della filosofia della casa eppure, stranamente, il testo di Heidegger è sempre rimasto in libreria – peraltro posizionata proprio di fronte la mia scrivania – e mai nessun percorso di pensiero mi aveva portato a rileggerlo. Il testo di Gennaro Ponte mi ha invece spinto a riprenderlo in mano e di questo pubblicamente lo ringrazio perché si tratta di una riflessione sul concetto di abitare di alta caratura filosofica.
Tutto ciò che ho detto fino ad ora ha certamente un’essenza autobiografica. In altre parole ho brevemente raccontato cosa mi ha causato la lettura del libro La casa non a caso. Un solo libro è stato in grado di smuovere a cascata una cospicua serie di altre letture creando alla fine, in un solo lettore, la possibilità non soltanto di esplorare nuove idee, ma anche di ritornare su percorsi di pensiero già battuti con maggiore consapevolezza. Per questo non soltanto ringrazio vivamente l’autore, il dott. Gennaro Ponte, per aver arricchito noi lettore di ottime prospettive di riflessione, ma ribadisco con forza la necessità di ritornare a fare della lettura la nostra principale attività quotidiana. Soltanto la lettura, infatti, consente la progressione del pensiero, la costruzione di una coscienza critica, il perfezionamento dello sguardo interiore e il potenziamento della nostra curiosità. A tal proposito mi sento di sostenere con forza la veridicità di quanto ha scritto il prof. Giorgio Marcello nella postfazione del libro circa l’importanza del cambiamento culturale della nostra società. Questa rivoluzione culturale, che secondo Marcello la diffusione di questo libro può aiutare a realizzare, è in effetti la condizione necessaria per poter veramente realizzare tutti gli obiettivi delle politiche sociali volte al miglioramento complessivo della nostra complessa società.
Relativamente alle tematiche del libro vorrei limitarmi a riflettere con voi, nello spazio ristretto di pochi minuti, soltanto su pochi punti che dalla mia prospettiva di insegnante di filosofia sono risultati particolarmente interessanti.
Innanzitutto ritengo utile far riferimento ad una distinzione sottile e particolarmente importante del giurista Umberto Breccia al quale l’autore fa riferimento in una nota del paragrafo 4.2 (Il diritto all’abitazione si fa spazio in Costituzione). Bisogna distinguere, suggerisce intelligentemente Breccia, il diritto all’abitazione dal diritto sull’abitazione. Il diritto sull’abitazione comprende «l’insieme di situazioni giuridiche esercitabili sul bene, quali la proprietà o altri diritti reali o obbligatori», mentre il diritto all’abitazione, che come giustamente osserva Ponte non trova «esplicita menzione» nella Costituzione italiana, «si riferisce alla rivendicazione di uno spazio in cui possa adeguatamente estrinsecarsi la personalità umana, che si traduce nell’uso durevole di un bene dotato di qualità utili a garantire in una determinata società lo sviluppo psico-fisico del Soggetto» (nota 5, p. 104). In effetti questa grave lacuna che opportunamente Ponte inserisce nel suo ben articolato quadro argomentativo, mi era già risultata da un articolo che diversi mesi fa lessi sul Fatto Quotidiano. Massimo Pasquini , che è un’attivista per il diritto alla casa ed è il responsabile del Centro Studi e Ricerche di Unione Inquilini, molto opportunamente notava che in Italia «il diritto all’abitare, anche se non previsto nella Costituzione, è affermato in impegni internabili ratificati dal nostro Paese e anche indirettamente in alcune sentenze della Corte Costituzionale»1, che peraltro sono ampiamente citate anche nel quarto capitolo del libro di Ponte (sentenze n. 49/1987 e 404/1988). Nel nostro Paese, quindi, vige una doppia contraddizione (l’ennesime, peraltro). Da un lato ci sono le sentenze della Corte Costituzionale che hanno riconosciuto a più riprese la valenza assoluta del diritto all’abitare e dall’altro c’è invece la grave assenza costituzionale dello stesso. Peraltro, come se ciò non bastasse, tale diritto, riconosciuto dalla Corte Costituzionale, è subalterno alle risorse finanziarie ad esso destinate perché, come nota ancora Pasquini, «pesa come un macigno l’assenza della definizione di Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) uniformi sul territorio nazionale, che di fatto ne pregiudica l’effettiva esigibilità». La seconda contraddizione si realizza invece tra l’Italia e l’Unione Europea. Mentre in Italia, come detto, il diritto all’abitazione non è esplicitamente menzionato nella Costituzione, in Europa ci sono documenti rilevanti e fondamentali che invece ne sottolineano l’assoluta importanza (la Carta sociale Europea, entrata in vigore nel 1999, lo sancisce nell’art. 31 e la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue lo ribadisce nell’art. 34).
Dalla mia prospettiva filosofica questa doppia contraddizione è assai significativa ed è indice di una generale scarsa attenzione a quegli aspetti, mi si lasci correre l’espressione volutamente radicale, metafisici della condizione umana. Lo ribadisco ancora: il diritto all’abitare fa riferimento ad una dimensione ontologica dell’essere umano che non a torto potrebbe definirsi filosoficamente come metafisica. Questa dimensione, detto in altri termini, non concerne le diverse modalità derivate dello stare al mondo (modalità determinate dalle mode, dagli sviluppi tecnologici, dalle diversità delle culture dei vari territori) ma inerisce la stessa struttura originaria e primigenia dell’uomo. Abitare è, in altri termini, una categoria metafisica primordiale di altissimo valore antropologico. Riflettere intorno al diritto dell’abitare, pertanto, non vuol dire banalmente riflettere intorno ad un diritto importante, ma vuol dire interrogarsi sul diritto più importante, nella misura in cui all’abitare dell’uomo è connessa essenzialmente una rete concettuale di altri diritti che da quello dipendono in modo assoluto. Martin Heidegger, nel testo a cui ho fatto riferimento più sopra (Costruire, abitare e pensare), con la sua consueta attenzione ai significati delle parole giunge a sostenere che il verbo bauen, che vuol dire costruire, deriva dalla parola alto tedesca buan che significava abitare e che apparteneva alla stessa costellazione etimologica del verbo bin, cioè del verbo essere. Per cui, stando all’antico significato delle parole, Ich bin non vuol dire soltanto Io sono, ma anche Io abito. Cosicché, conclude Heidegger, «il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra è il Buan, l’abitare».
Penso di non sbagliare ritenendo questa riflessione perfettamente in linea alla visione del nostro autore, in quanto a pagina 61 del suo libro, dopo aver illustrato tutta una serie di definizioni relative alle persone “senza dimora” (barbone, clochard, senza ambiente, senza territorio) giustamente rileva che l’assenza di un luogo fisico stabile in cui vivere è soltanto «la punta dell’iceberg» rispetto ad una serie di problematiche radicali (carenza di legami sociali, sradicamento, assenza di relazioni significative) che sono determinate da questa condizione.
Assai significativa a questo proposito è l’espressione che l’autore utilizza nell’ultimo paragrafo del libro dedicato al senso della casa per indicare il sentimento di sicurezza che l’ambiente domestico ingenera in chi lo abita definendolo come «senso di sicurezza ontologica». Su questo sentimento esperito dagli abitanti di una casa mi sarebbe piaciuto soffermarmi maggiormente. In una battuta mi limito soltanto a dire che in effetti si tratta, alla luce anche delle considerazioni heideggeriane che ho riportato prima, del sentimento di base che ogni abitante di una casa dovrebbe esperire. Dovrebbe essere, in altri termini, lo sfondo emotivo-sentimentale permamente.
In filosofia con ontologia si definisce lo studio filosofico dell’essere. L’essere dell’uomo non soltanto ha da essere, nel senso che ha bisogno di una progettualità e quindi è una progressiva costruzione, ma ha bisogno anche di una custodia totale del suo essere. L’uomo, in altre parole, non soltanto costruisce se stesso in un processo continuo durante tutto l’arco della sua vita, ma avverte anche la necessità di una custodia e di una difesa del suo progetto esistenziale. A questo punto è davvero difficile non fare un rapido accenno alla celeberrima piramide dei bisogni umani di Abraham Maslow. Com’è noto lo psicologo statunitense indicò al secondo stadio, subito dopo i bisogni fisiologici (le necessità relative al respirare, al bere, all’alimentarsi, alla sessualità, al riposo, ecc.) che rappresentano la base della piramide, proprio le necessità di sicurezza fisica e di protezione domestica. Se i bisogni relativi a questo secondo stadio non si conseguono (e senza fissa dimora è impossibile conseguirli) si pregiudicano tutti gli altri obiettivi superiori (i bisogni di appartenenza, i bisogni di riconoscimento sociale e quelli infine di autorealizzazione che rappresentano la punta della piramide dei bisogni).
Ma la custodia dell’essere non si esaurisce soltanto nella tutela biologica degli abitanti di una casa. Quando giunti ad un certo punto della sera noi idealmente giriamo la chiave nella serratura della porta d’ingresso non lo facciamo soltanto per un bisogno di protezione fisica (secondo stadio della piramide di Maslow) ma tale gesto ha anche una dimensione simbolica fortissima. In quel gesto di chiusura noi stiamo delimitando il nostro spazio domestico sacro. Durante il giorno chiudiamo la porta d’ingresso, è vero, ma raramente ci assicuriamo che la porta sia chiusa a chiave proprio perché siamo in fondo consapevoli che il rapporto con il mondo esterno non può essere tranciato. Ospiti, commissioni, impegni lavorativi, necessità ci spingono sempre a varcare la porta d’ingresso. Ma giunti ad un certo punto del giorno questa porta che ha consentito l’interscambio tra interno ed esterno viene chiusa in modo definitivo. La soglia della porta non è più un luogo di passaggio, ma un limite ben preciso. In quel momento, cioè, il confine tra esterno ed interno diventa netto, radicale. Da quel momento fino al giorno successivo la famiglia raccolta nel nido raggiunge il momento di massima intimità. Un comportamento fisico (chiudere la porta a chiave) si trasforma in un gesto simbolico (delimitare uno spazio) che assume un’importante valore psicologico (costruire un’identità). Molto opportunamente Ponte ha riportato un’interessante osservazione di Vanna Iori secondo la quale per entrare in casa altrui «si chiede il permesso di varcare una soglia che è fisica e psicologica». Questo rilievo è utile a capire la complessa profondità della casa che non si può ridurre alla dimensione materiale (quella che in inglese viene chiama house), ma che si arricchisce invece di un’importante dimensione affettivo-relazionale e simbolica (quella che ancora gli inglese chiamano home).
Costruire, abitare, coltivare, custodire, essere sono i termini che nella riflessione di Heidegger sull’abitare rivelano la loro intima interconnessione semantica e concettuale. Custodia, in particolare, è un termine che meriterebbe anch’esso una certa attenzione. Esso si riferisce, a mio modo di vedere, anche ad una dimensione autobiografica ed esistenziale, oltre che biologica. Sebbene la custodia possa richiamare subito alla mente la protezione fisica da intemperie, intrusioni, aggressioni, invasioni esterne, essa può riferirsi anche alla custodia della propria memoria narrativa e autobiografica. Innanzitutto vale la pena ricordare che «la parola abitare», come spiega Lucilla Rami Ceci, «ha la radice comune al verbo latino habeo cioè avere, anzi “continuare ad avere” cioè “avere consuetudine in un luogo” […]. L’abitazione può essere definita come quel luogo in cui è possibile rintracciare tracce di un vivere permanente»2. La casa è quindi l’estrinsecazione, la proiezione esterna del nostro vissuto. Soprattutto grazie all’arredamento l’ambiente domestico racconta una storia (individuale o familiare) e assolve ad un compito imprescindibile per ogni essere umano, quello di raccontarsi. Ecco perché la mancanza di una fissa dimora ha come conseguenza, tra le innumerevoli altre, quella di mortificare l’espressività umana, di bloccarne in un certo modo la manifestazione.
La casa è sempre il punto di riferimento dalle varie tappe evolutive dell’essere umano. Si pensi, ad esempio, all’espressione tecnica «uscita psichica dalla casa parentale»3 utilizzata per definire il passaggio dalla fase del giovane adulto (che si frappone fra l’adolescenza e l’età adulta) all’età adulta. Questo passaggio, inevitabilmente, si realizza parallelamente con l’uscita anche dalla casa fisica dei genitori (non è quindi solo un’emancipazione dalla rappresentazione psichica della casa della famiglia d’origine) e con l’entrata in una nuova casa. Nella vita quotidiana si usa dire «porta a casa il risultato» per intendere che il successo conseguito nell’ambito sociale e pubblico inevitabilmente dovrà poi essere trasferito a casa, intesa però come dimensione autobiografica, come racconto narrativo personale che ad ogni esperienza si arricchisce di un tassello in più.
Anche l’ultima e definitiva transizione, quella dalla vecchiaia alla vita eterna, ha quasi sempre un esplicito rimando alla casa. Molti medici, infatti, con estrema sensibilità concedono ai morituri un ritorno a casa e non di rado molti gravi ammalati che hanno compreso di esser giunti alla fine del loro percorso terreno vogliono compiere l’ultimo passo a casa. Quel ritorno casa simboleggia quindi l’ultimo saluto a quella dimensione terrena, la casa, che ha rappresentato il massimo luogo di significatività esistenziale.
Queste riflessioni sulla filosofia della casa non esauriscono certamente ciò che si potrebbe dire sul tema, ma sono soltanto alcuni pensieri scaturiti spontaneamente dalla lettura stimolante del testo di Ponte (soprattutto dallo studio degli ultimi due paragrafi del capitolo quarto). Questi pensieri, tuttavia, non sono vagheggiamenti filosofici, ma sono argomenti che hanno uno scopo ben preciso. Essi mirano a sensibilizzare la nostra coscienza civica e morale sul fatto che il diritto all’abitare realizza un bisogno che nessuna situazione dovrebbe minacciare e nessuna condizione dovrebbe far decadere. È un bisogno, come dicevo all’inizio del mio intervento, di tipo ontologico, relativo cioè alla natura stessa dell’essere umano, che non può essere certamente esaurita dal senso di protezione fisica che all’homeless manca. A costui tragicamente vien meno il mondo stesso, ma non quello fisico, bensì quello di senso. Dice bene, infatti, Ponte quando scrive che «vivere in una casa dopo averla persa […] determina una ri-significazione dell’intero universo di senso» (p. 60). Un altro percorso di ricerca che ho appena abbozzato, e che il libro di Ponte ha incentivato, è dato dal cambiamento psicologico ed esistenziale determinato dalla vita in strada, vale a dire in un contesto che, per usare il termine coniato da Marc Augé e presentato nel suo libro Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, è appunto non-lieu (non luogo). Il non luogo è un posto in cui la soggettività della persona si perde perché la sua struttura del posto (un centro commerciale, un campo profughi, una sala d’attesa, un aeroporto, un ascensore, un mezzo pubblico, una strada) non ha i caratteri della storicità, dell’identità e della relazione. Sono non luoghi, cioè spazi in cui la soggettività non è richiesta ma l’essere umano è lì solo in quanto consumatore, viaggiatore, mera individualità di passaggio in una neutralità assoluta. Il non luogo non accetta abitanti, ma solo individualità in transito. Eppure i non luoghi sono i posti in cui, per tragica necessità, i senza tetto risiedono e quindi sarebbe assai interessante studiare a fondo e in modo specifico quali risonanze psicologiche l’abitazione di un non luogo è in grado di ingenerare.
Alla luce di tutto ciò, io ritengo che i programmi di Housing First, a prescindere dalle diverse realizzazioni nei vari contesti e nei vari Stati, ruotano intorno un valore assoluto che invece permane universalmente identico: la casa non può giungere alla fine di un percorso di reinserimento sociale (a seguito di vicissitudini giudiziarie o finanziarie) o di un trattamento neuropsichiatrico (sia che si tratti di tossicodipendenze sia che si tratti di problematiche di salute mentale). In conclusione vale la pena riaffermare che la casa – Ponte lo ribadisce più volte nel corso del libro – non è un elemento premiale che può giungere alla fine di un certo percorso, ma è la roccia primigenia sulla quale edificare fin dall’inizio il recupero della persona.
(Versione integrale del testo della relazione del prof. Francesco Luigi Gallo in occasione della presentazione del libro di Gennaro Ponte, La casa non a caso. Ritornare Persona dopo la povertà, Santelli, 2021).
1 https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/12/07/il-diritto-alla-casa-non-e-in-costituzione-ma-e-affermato-da-impegni-internazionali-che-litalia-non-rispetta/7375602/#:~:text=La%20Corte%20Costituzionale%20ha%20%C2%ABincluso,128%20del%202021%2C%20n.
2 La città, la casa, il valore: borghesia e modello di vita urbano, Roma, Armando 2000, p. 28.
3 E. Scabini, R. Iafrate, Psicologia dei legami familiari, Il Mulino, Bologna, 2023, p. 151.
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