di Dalisca
Dopo due ore di spettacolo ininterrotto seduta su una poltrona piuttosto scomoda e dopo aver assistito alla ennesima versione di “La gatta sul tetto che scotta” di Tennis Williams, mi sono chiesta: oggi che cos’è il teatro? O meglio, quali sono i segnali di cambiamento che preannunciano il “nuovo” tanto atteso?
Perché il teatro, nonostante gli sforzi, non riesce a sorprenderci e a ridarci, ormai digerito, tutto il passato fatto di opere immortali, ma che necessitano di tempi e modelli di rappresentazione a passo con i nostri tempi?
La pièce rappresentata dalla compagnia di Leonardo Lidi tenta, attraverso elucubrazioni sceniche, di rinnovare un testo datato 1955 attualizzandolo secondo canoni di sottrazione e racchiudendolo in un unico tempo (due ore consecutive).
Il tentativo fallito di questa azione non solo non ha reso bene il concetto base dell’autore e cioè la dichiarata omosessualità del protagonista che, dati i tempi di oggi, non fa più scalpore, ma che allora, negli anni sessanta poteva essere oggetto di interesse, curiosità e novità per un teatro, fino ad allora, basato su concetti morali e quindi etici del tutto differenti.
Siamo lontani da quelle innovazioni falsamente realistiche ma estremamente valide portate avanti da registi quali Luca Ronconi e non da meno, per sottrazione, da Carmelo Bene.
Cosa rimane di questi grandi e della loro voglia di sperimentare nuovi metodi per allargare l’orizzonte ben oltre gli incassi del botteghino per preoccuparsi invece del freddo e deludente applauso del pubblico unico vero fruitore dello spettacolo!
Anche alla fine della performance, presentata al Teatro Vascello di Roma, bastava ascoltare i commenti a caldo degli spettatori nonché percepire la freddezza per rendersi conto della delusione per un’aspettativa tradita chiaramente visibile sul loro volto.
Ipocrisia, incertezza, infedeltà, isterismo questi solo alcuni dei sentimenti che maggiormente affliggono i vari componenti della rappresentazione; il tutto racchiuso in un claustrofobico spazio di finto marmo bianco, quasi un ring di combattimento certamente non consono ad un gruppo familiare.
Un giovane alto e magro in mutande percorreva muto e di continuo questo spazio con in mano uno specchio che faceva, di volta in volta, da separé per introdurre i vari personaggi. Tale icona avrebbe dovuto rappresentare lo spirito di Skipper l’amico di Brike morto suicida, causa della infelicità del personaggio principale.
L’inizio si apre con una scena di isterismo da parte della moglie di Brike a causa delle mancate attenzioni da parte del marito che, nonostante le sue avance, non vuole soddisfare i desideri legittimi della moglie; lui, dal canto suo, immerso in un mare di bottiglie vuote si trascina appoggiandosi ad una stampella, visto che aveva una gamba ingessata, si lascia andare affogando nell’alcol le sue pene. Un mix di ansia e di inerzia, un cocktail di elementi contrastanti poli di una crisi di coppia ormai in fase avanzata.
Fanno da corona gli altri componenti della famiglia quale il padre-padrone tanto somigliante ad un personaggio americano caratterizzato da una cravatta rossa, una persona gretta e superficiale che, in seguito ad una bugia circa la sua reale condizione di salute, si libera dei laccioli di una vita per esprimere tutto il suo disappunto per averla vissuta in modo innaturale confortata da bugie e falsità.
Non ultimi da non tralasciare i bambini, angeli diabolici che partecipano, loro malgrado, al caos generale con malizia e fraintendimenti non riuscendo a comprendere ciò che la ingenuità non consentiva loro di decodificare.
Da qui al finale il passo è breve, la commedia ormai satura di ogni bruttezza umana non lasciava spazio se non ad una mestizia tombale senza alcuna possibilità di riscatto morale.
Che cosa è oggi il teatro?