Dietro all’attacco tanto annunciato dall’Iran contro Israele
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Michele Mezza
Docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli
Secondo Michele Mezza quanto è accaduto sotto i nostri occhi in queste ore è davvero stupefacente, Al tempo della cronologia, in cui tutto è in real time, abbiamo assistito nella notte fra sabato 13 e domenica 14 aprile ad una guerra al rallentatore, alla moviola, in cui i commentatori, anche con un tono infastidito, aspettavano l’arrivo dei droni lanciati dagli iraniani che ci avrebbero messo nove ore per raggiungere Israele. Una vera eternità, che mal si concilia con i tempi televisivi. I pochi Cruise lanciati ci hanno messo anche loro ben due ore per arrivare su bersagli dove lì aspettavano la contraerea di Tel Aviv. Mentre non si sono visti in azione i missili più veloci che in 12 minuti avrebbero colpito i bersagli. La domanda è legittima: cosa è accaduto realmente? Sembra sia andata in scena una simulazione concordata, in cui gli Ayatollah, per non perdere la faccia, hanno concordato con gli americani un buono per un attacco finto a Israele, senza fare né danni né vittime. Solo un po’ di macabro spettacolo.
15 aprile 2024
Non a caso sono chiamate le Fionde di David le batterie anti aeree che hanno decimato gli ordigni lanciati dagli iraniani nella notte fra sabato 13 e domenica 14 aprile, in quella singolare sfida di abilità che è andata in scena. La meccanica dell’operazione ha infatti ricordato più una sfida di sapore biblico fra islamici ed ebrei che una guerra fra Stati.
Abbiamo infatti assistito ad un attacco annunciato che ci è sembrato concordato fra le parti.
Poco più di una manovra militare sul campo, si potrebbe definire, se non avesse comunque comportato ansie e anche qualche minimo danno alla popolazione civile. Oppure un episodio di quella ormai permanente guerra ibrida, in cui come recita una delle leggi del nuovo marketing narrativo, il valore di un prodotto coincide con il suo racconto più che con il suo contenuto.
Dopo le prime apprensioni indotte dalle edizioni straordinarie dei telegiornali, ci è quasi subito apparso evidente che stava andando in scena un copione sceneggiato.
Proprio le cronache dei principali network televisivi l’altra notte ci hanno sorpreso, e anche, in qualche modo inquietato.
Dopo un congruo periodo di annunci in questi giorni, che sembravano coordinati fra le parti, per permettere a tutti di fare bella figura, e con almeno 24 ore di preavviso, in cui i satelliti spia americani avevano dettagliatamente informato su quanto si stava preparando a Teheran, si è visto all’opera un sistema di aggressione quanto mai singolare, una vera simulazione alla moviola.
Come spiegavano i commentatori militari nelle prime fasi, l’insidia era data dal numero degli ordigni lanciati, che poteva saturare le capacità della difesa aerea considerata più efficiente del mondo. Soprattutto la minaccia avrebbe comportato un escalation micidiale se, dopo gli sciami dei droni, che dovevano solo occupare i sistemi radar e di tracciamento israeliani, fossero arrivati batterie di missili balistici, come i temutissimi Seijl e il recente supermissile Haj Qasem che in solo nove minuti arriva su bersagli a 10 mila chilometri. Quella sarebbe stata una guerra diretta e senza controllo.
Per fortuna abbiamo visto uno scenario del tutto diverso: su tutti gli schermi televisivi, persino quelli di Al Jazeera e di Al Arabiya, decine di corrispondenti da Tel Aviv o Gerusalemme non sapevano come occupare i tempi morti di lunghe telecronache per aspettare i droni che, partiti nella serata di sabato 14 aprile dall’Iran, erano annunciati 9 ore dopo ovvero domenica 14 aprile, come degli aerei cargo che consegnano i pacchi di Amazon.
Dei pochi missili lanciati poi dagli Ayatollah non abbiamo notizia, e dobbiamo dedurre che siano stati intercettati dalle batterie terra-cielo Arrow direttamente nella stratosfera, mentre il grosso dei droni sono stati colpiti dai caccia con la stella di David che hanno sperimento una nuova tecnica di copertura contro appunto gli sciami di aerei senza pilota. I superstiti di quel tiro al bersaglio, a cui hanno partecipato attivamente anche forze anglo americane, dislocate nella zona, sono stati oggetto delle riprese televisive che ci hanno mostrati il loro abbattimento nei cieli israeliani, dove abbiamo potuto vedere i lentissimi movimenti dei traccianti, replicati più volte per esigenza televisive.
Naturalmente siamo felici per lo scampato pericolo, e soprattutto perché ci è parso che la trama delle relazioni dirette fra i contendenti prevalga sulle esigenze brutali di soddisfazione che portava il regime teocratico iraniano a reclamare vendetta.
Ma non possiamo non chiederci questo war game cosa significhi?
Siamo esclusivamente nell’ambito di un semplice e cinico gioco delle parti, in cui ognuno cerca di salvare ogni volta la propria faccia, contrattando spazi muscolari per esibire la propria determinazione a basso costo, oppure ormai la necessità di verificare sul campo i propri sistemi d’arma e le infrastrutture tecnologiche che li sorreggono e li guidano esigono qualcosa di più delle semplici sperimentazioni di laboratorio o manovre interne?
È evidente che siamo dinanzi ad un’evoluzione di quella che in un nostro libro sulla guerra in Ucraina abbiamo chiamato Net-War1, ossia un combattimento attraverso la produzione e lo scambio di informazione sul terreno. Qui siamo alla negoziazione preventiva di azioni militari che ognuno poi usa per collaudare una strategia comunicativa, un’azione di marketing politico o tecnologico, o la tenuta di nuove tecnologie belliche.
Gli Ayatollah avevano il problema di mostrare al proprio Paese la loro determinazione a punire Israele per le azioni chirurgiche contro i capi dei servizi che sono stati eliminati. Il governo Israeliano ha la necessità di prolungare lo stato di emergenza per la sicurezza nazionale per poter rimanere in attività, e salvaguardare le relazioni con l’occidente, duramente compromesse dal martellamento su Gaza. Gli americani devono da una parte mostrare la loro presenza nella regione, insidiata dall’intraprendenza russa e cinese, dall’altro il presidente Biden deve rafforzare la sua leadership di comandante in capo in vista delle prossime elezioni presidenziali.
In mezzo i popoli dei Paesi che inevitabilmente si trovano in guerra, come gli iraniani, gli israeliani, ma anche i siriani e i libanesi, ostaggi delle manovre dei due contendenti.
Certo che in questo mucchio selvaggio, rimbomba il silenzio europeo che, nemmeno quando si sfiora un vero conflitto a due ore di aereo dalle nostre città, viene sostituito dalla pretesa di un protagonismo nel proprio mare.
- Michele Mezza, Net-War. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra. Con un poscritto di Pierguido Iezzi, Roma, Donzelli, 2022, VI-226 p. ↩︎
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