di Beppe Attene
Le povere righe che seguono sono un’estensione dei ragionamenti iniziati il 26 ottobre su Il Riformista che proseguono oggi su Ilmondonuovo.club.
Ringrazio entrambi e considero che quanto avviene in questi giorni attorno alla strategia sull’audiovisivo sia la perfetta rappresentazione sintetica della crisi della nostra classe dirigente su entrambi i versanti apparentemente contrapposti.
Per questo è assolutamente necessario ragionarne seriamente, ammesso che ciò ancora sia possibile.
La bozza di bilancio che sta per andare in discussione prevede, per quanto riguarda l’audiovisivo, sia tagli espliciti e cruenti, sia limitazioni “tecniche” ancora più devastanti.
Riduzione decisa dei finanziamenti basati sulla cosiddetta eccezione culturale e norme di applicazione del tax credit, simili a quelle del settore edilizio, che ne renderebbero impossibile la utilizzazione.
Ci sono molti buoni motivi che giustificano l’atteggiamento dei funzionari del MEF che hanno steso la bozza.
La formulazione e la gestione delle norme sul tax credit hanno portato, dal 2017 ad oggi, a sforamenti di bilancio non prevedibili e non previsti, che è possibile calcolare in circa 1,4 miliardi di Euro.
Nello stesso tempo l’afflusso di denaro non proveniente dal mercato ha prodotto un non credibile aumento dei costi di produzione di film e serie televisive.
Ancora, ha attirato l’interesse e l’attenzione di Società Finanziarie straniere, totalmente indifferenti ai valori culturali e identitari che l’audiovisivo dovrebbe invece rappresentare.
Ma che tutto questo succedesse si sapeva non da tempo ma da diversi anni.
L’impostazione data dal ministro Dario Franceschini alle norme in merito aveva escluso il riferimento al “modello francese” per attenersi al modello italiano “paga Pantalone”.
Il tax credit è uno strumento prezioso se indirizza la rinuncia dello Stato alla riscossione di una percentuale delle tasse a favore di un investimento fruttifero.
E, soprattutto, se non viene vissuto come una obbligatoria dazione (giustificata con l’affascinante concetto di “eccezione culturale”) gestita totalmente in sede pubblica.
Il dentista che preferisce investire nel cinema, tramite delle Società certificate e a ciò preposte, una parte delle tasse che deve pagare è ovviamente anche interessato a guadagnare e a scommettere dunque su prodotti che possano funzionare e portargli buoni risultati.
Ciò non viene vissuto come una esenzione fiscale ma piuttosto come un incentivo a investire.
Non si applica ai costi di produzione del film o della serie televisiva ma agisce sulla fiscalità di altri settori.
Di conseguenza non determina automaticamente incongrui e non credibili aumenti dei costi di produzione.
Il meccanismo è corretto e sano. Difende identità e industria audiovisiva nazionale, giustamente riconosciute come strategiche.
Ripeto che tutto questo era da tempo e largamente noto.
Ci si poteva dunque aspettare che alla conquista del potere da parte del centro destra avrebbe corrisposto una decisa azione correttiva e che dunque quella incongrua filosofia ai danni dello Stato venisse sostituita da normative differenti.
Ma il governo stretto del settore è rimasto, miracoli italiani, alla stessa persona che aveva già ricoperto lo stesso incarico nel governo Conte: la sottosegretaria Lucia Borgonzoni.
Una continuità tanto sorprendente quanto devastante.
Nessuno ha, di conseguenza, corretto nulla ed anzi la effimera popolarità da sfoggiare sui red carpet insieme ai begli abiti ha giustificato ancora il sentirsi un mondo da difendere sempre e comunque, tutti assieme.
Ma adesso gli spazi estetici stanno bruscamente riducendosi.
Andiamo verso una situazione in cui la cosiddetta sinistra accuserà in Aula i cosiddetti fascisti di voler umiliare e distruggere la espressione culturale italiana.
I tagli di bilancio verranno attribuiti alla volontà censoria del Governo e andranno a collocarsi accanto alla repressione contro le manifestazioni filo-palestinesi e, perché no, ad accordi sotterranei con l’attuale governo degli USA.
Qualcuno, forse, si sveglierà anche nella cosiddetta destra per finalmente chiarire di chi è storicamente la responsabilità di una normativa sbagliata e dannosa.
Forse, perché dipenderà anche dai rapporti fra Lega e Palazzo Chigi.
Ci chiuderemo, come tante volte è capitato, nella beatificante dialettica fascismo – antifascismo che tante volte ha restituito una identità momentanea ad entrambe le parti apparentemente in lotta.
Ci rimane solo da sperare che, poiché l’audiovisivo è uno strumento fondamentale per la difesa della identità italiana nel mondo, il Ministro Giuli (o qualcuno competente da lui indicato) si impegni, magari con norme transitorie, ad evitare la deriva di incompetenza che sta per distruggere il comparto.
Poche certezze servirebbero in partenza:
- Il tax credit è, anche in questo settore, uno strumento prezioso e irrinunciabile
- Non può essere, in alcuna maniera, sostitutivo del mercato
- Non deve essere confuso e utilizzato con forme di sostegno esplicito per prodotti difficili o riconosciuti di valore culturale e identitario
- Non deve essere automatico (ad evitare sforamenti) e non deve essere gestito da strutture pubbliche
- La necessaria fase di transizione verso un modello sano non deve avviarsi con una catastrofe collassante.
Su questo tema, come su altri, vedremo nelle prossime settimane se esiste ancora nella politica italiana una qualche volontà di rappresentare (come da Costituzione) lo stato effettivo e le problematiche della Nazione oppure se si continueranno a difendere posizioni di bandiera insieme a piccoli interessi strumentali.












