di Salvatore Sechi
“Saragat aveva ragione, e socialdemocratico non è una parolaccia”. Secondo un protagonista ed un testimone affidabile come Giuliano Amato[1], con questa battuta nel 1978, Bettino Craxi avrebbe inaugurato una notevole e anche inaspettata campagna volta a colpire la storia e la stessa identità dei comunisti italiani.
Le analisi, le denunce, le proposte dell’organo teorico del Psi (Mondo operaio, allora diretto da Federico Coen)[2]erano volte a prendere le distanze dall’Urss e dal Pci.
Nel sistema politico italiano s’insinuarono con l’irruenza di un interlocutore politico senza patemi di inferiorità e anzi non di rado aggressivo.
Secondo l’interpretazione di Vittorio Foa[3], il punto di maggiore condensazione dell’autonomia e del rinnovamento del Psi (cioè il craxismo) ha rischiato di restare rubricato, e quindi circoscritto, a una formidabile proposta di riforma dei rami alti dello Stato e della sua macchina amministrativa. Ne fu autore Giuliano Amato, che svolse un ruolo insostituibile (e neanche completo) come stretto collaboratore e ispiratore di molte delle iniziative di Craxi da premier.
Questa analisi di un protagonista come Foa va tenuta presente. Egli è sempre stato anche un osservatore critico acutissimo della vicenda politica italiana e dei tornanti della sua storia, come è testimoniato dalla sua vasta produzione saggistica.[4].
Mi pare abbia, però, un limite. Consiste nel minimizzare o sottacere che il riformismo amministrativo, come lo chiamò, del governo presieduto da Bettino Craxi aveva avuto un presupposto, direi il suo primo tempo, in un programma di riforma del capitalismo mai tentata nella storia d’Italia.
Questa grande prova di autonomia – vissuta anche aggressivamente – la si deve al gruppo degli intellettuali che si era formato intorno ad Antonio Giolitti, e non potevano dirsi inizialmente sostenitori di Craxi. Se si rilegge la collezione di Mondo operaio, la polemica sul sub-stalinismo di Togliatti si accompagna ad un dibattito sulla riforma del sistema istituzionale (il rafforzamento dell’esecutivo e la proposta di un regime presidenziale) e sul consiliarismo nei luoghi di lavoro. Quella di Mondoperaio fu un progetto di radicale cambiamento dentro il sistema. Non ebbe lo spessore, il vigore e i tempi lunghi (cioè la durata, al di là di interruzioni e rallentamenti) di un progetto che potesse contare su una maggioranza parlamentare del Psi.
L’esito operativo è stato minore rispetto all’eco suscitata nella stampa e nell’opinione pubblica colta. Questa modestia non ha corrisposto alle attese di una forza che storicamente era nata ed era cresciuta nell’età giolittiana per un’alternativa dalle facce diverse (da quella riformista a quella massimalista). Malgrado l’ampiezza, l’efficacia e la modernità del progetto riformatore alla fine il craxismo ha finito per ridursi alla gestione del Governo.
Ma aveva dato il segnale più corposo dell’esistenza di una nuova sinistra socialista. Abbastanza inedita perché ormai sempre più determinata a liberarsi dalle strettoie della guerra fredda. Anzi, a fare di più, manifestando la disponibilità a far precipitare in un falò la propaganda, anche sul piano storiografico, con cui il Pci aveva vissuto e raccontato la sua esclusione, nel 1948, dal governo De Gasperi.
Era, questo, l’oggetto della paranoia interpretativa dei comunisti. Nei decenni successivi, fino ai governi guidati da Silvio Berlusconi, avrebbero demonizzato come il-fascismo-che-torna ogni Esecutivo che li lasciava a bagno maria.[5]
Il Psi nel suo maggiore organo teorico (per la verità mai vivisezionato preventivamente dal segretario e dalla segreteria del partito) non si allinea minimamente a questa esegesi, segnando una distanza incalcolabile da via delle Botteghe Oscure.
Non spendono molte parole per accreditare ulteriormente il vissuto politico e la versione che per decenni i comunisti avevano dato della rottura della coalizione governativa. A loro avviso, non riecheggiava più gli equilibri dei Comitati di Liberazione nazionale e quindi dell’antifascismo.
Ma si era anche perso il giusto senso di marcia, quando l’inizio della guerra fredda e l’uscita delle sinistre dal governo venne attribuito per un verso ad un estemporaneo ripensamento di Alcide De Gasperi; e per altro verso (come si intesterà̀ a dire la versione propagandistica ancora oggi diffusa) ad una pressione esterna, ossia invasiva, del governo statunitense guidato dal presidente H. Truman.[6]
Nelle pagine dell’Unità, Rinascita, Vie Nuove ecc. questo è il leit motiv più frequentato. Non corrisponde ad una “verità” storiografica, ma ad un’invenzione di Togliatti.
Pur senza pronunciarsi esplicitamente, l’esclusione della sinistra dalla coalizione di governo a ridosso delle elezioni del 18 aprile 1948 da Mondoperaio venne archiviata quasi si trattasse di una macroscopica deformazione dei fatti. Non si volle fare oggetto di ripensamento i modi in cui dal Pci venne vissuta e propagandata. Con un’efficacia evocativa che arriva fino ad oggi, la si lasciò rubricare come una misura cruciale di attacco e ripudio dell’anti-fascismo.
In realtà, la rottura del governo presieduto da Alcide De Gasperi era da attribuire all’identificazione tenace e orgogliosa del Pci nelle ragioni non solo della politica estera di Mosca, ma nella cultura politica del marxismo-leninismo. In discussione era, dunque, il rifiuto-come rottami ideologici della borghesia- dei principi delle democrazie liberali e dei governi socialdemocratici.
Sulle pagine di Mondoperaio sempre meno ci fu qualcuno dispostoa giustificare e ripetere i salmi che – secondo uno spartito dettato dall’anti-americanismo – avevano intonato i direttori precedenti (da Pietro Nenni al futuro fondatore dei Quaderni rossi, Raniero Panzieri). Si venne accreditando progressiva mente quanto Giovanni Scirocco mostra nel suo recente saggio, cioè che nella storiografia italiana (in cui era prevalente l’influenza dell’apporto dei comunisti) era stata a lungo omesso o minimizzato.
Si tratta di uno degli aspetti centrali dei dibattiti e delle dure polemiche degli anni Trenta. Come la domanda, diventata un vero e proprio cruccio tormentoso: per fronteggiare l’estensione a macchia d’olio del fascismo e del nazismo, i partiti democratici e socialisti dovevano allearsi con l’Unione sovietica?
La rivista del Psi non fa proclami né grida. Considerò un episodio chiuso (e positivo) la decisione di Stalin di intervenire a difesa della repubblica spagnola e quindi la necessità di trattare l’Urss come una componente dello schieramento antifascista su scala europea.
Quest’ultimo ne fece un baluardo della lotta per la democrazia, mettendo, così, una sordina durata diversi decenni sulla spaventosa realtà dispotica dell’Unione sovietica.
Le lettere che il giovane storico dell’illuminismo e del populismo russo, Franco Venturi, reduce dal suo primo viaggio a Mosca alla fine del 1936, scrive, una volta rientrato da Parigi, sul regime comunista, sono una testimonianza esemplare. Oltre a manifestare le proprie illusioni, muovevano proprio da questo dato di fatto, cioè l’associazione dell’Urss alla lotta per la libertà. Stalin aveva schierato l’Urss a difesa della repubblica spagnola. In questo modo si era munito di una concreta prerogativa antifascista. Almeno momentaneamente fu la copertura per cui non si volle vedere allora che il comunismo russo si rifaceva a dottrine come il marxismo-leninismo e propagava idee e seguiva pratiche politiche opposte al liberalismo di Gobetti e di Croce.
Essi nell’espansione del movimento socialista avevano saputo cogliere un contributo alla difesa e allo sviluppo di principi di libertà che l’esperienza sovietica, e quella comunista, invece negavano.
C’era, però, una novità. Nella rivista, per quanto concerne i rapporti con i comunisti, soprattutto russi e quelli italiani, a contare è il contesto dell’attività redazionale di promozione svolta da due redattori come Luciano Vasconi e Marco Baccianini.
Essi vollero arricchire ogni fascicolo di analisi, ricordi, testimonianze sulla repressione, l’autoritarismo, l’assenza di ogni principio di democrazia dominante nei paesi comunisti.
Non fu difficile per i socialisti dire quel che rifiutavano (e addirittura di cui avevano ripugnanza) del comunismo fattosi Stato, produzione e anche forma imperiale. Pietro Nenni, Francesco De Martino e lo stesso Raniero Panzieri durante la loro direzione erano stati corrivi, in misura quasi inestricabile, alla loro cultura frontista celebrando – come la selezione di Giovanni Scirocco mette in evidenza – non di rado le lodi di quanto avveniva a Mosca e dintorni. E soprattutto ignorando il forsennato disegno di politica criminale verso oppositori e critici che senza risparmio alcuno veniva dispiegata da Stalin.
L’ardore antiamericano e antiatlantico aveva spento in loro ogni capacità di resistenza, se non di opposizione, alla grande macelleria che veniva consumata in Urss e nei paesi satelliti a carico delle idee di libertà, di indipendenza, di sviluppo e crescita civile.
Nei lunghi anni Settanta, sul piano storico-teorico il “duello a sinistra” sarà portato avanti dagli interventi di Massimo L. Salvadori, Lucio Colletti, Giuliano Amato, Ernesto Galli della Loggia, Luciano Cafagna, Federico Mancini, Gino Giugni , Luciano Pellicani ecc. [7]
Ma il craxismo non volle identificarsi in esso. Ne accolse l’architettura, ma non lo saldò alle tensioni e alle sperequazioni nuove che crescevano nei luoghi di lavoro. Oltre il referendum sulla scala mobile e sulla riforma delle procedure per i licenziamenti, la mobilitazione operaia non fu elevata a condivisione e partecipazione perché il proletariato industriale, vecchio e nuovo, non era un soggetto centrale, vale a dire il protagonista di un’auto-tutela nelle sedi della produzione capitalistica come sempre sostenuto, e richiesto, da Vittorio Foa.
Ma se l’allineamento del Pci sulle posizioni dell’Unione sovietica stalinizzata e la “politica unitaria” con loro come la vissero i socialisti non era liquidabile – analogamente a quella dei comunisti – come stalinista, in che cosa consisteva? e quanto di essa è sopravvissuta trasferendosi direttamente o meno nel Psi e nei rapporti con la Dc e gli altri partiti?
Ma una rilettura storiografica di che cosa è successo alla sinistra italiana nel secondo dopoguerra non può essere evitata.
Il grande errore di Nenni: l’unità d’azione col Pci.
Ciò detto, occorre aggiungere che si tratta di un aspetto di come andarono le cose. Ad essere oggetto di ripensamento è la scelta del fronte comune col Pci (anzi: il patto di unità d’azione) che il Psi fece propria fin dalle elezioni del 18 aprile 1948.
A trarre qualche vantaggio da esso, in termini di immagine nella stampa, furono i socialdemocratici (demonizzati come traditori e suole della grande scarpa americana) e i comunisti “critici”.
Dai fedeli, spesso proni fino al fanatismo nel loro stato di adoremus al cospetto della chiesa sovietica, erano stati denigrati e colpevolizzati per aver creato un sentimento di avversione e ostilità verso il comunismo come teoria e come prassi. Ora credo che tutti gliene siamo loro assai grati.
Si trattava di una vasta schiera che comprendeva in Italia Angelo Tasca, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte (in generale il gruppo attestato sulla rivista Tempo Presente).[8]
La decisione del Psi di proclamare l’unità politica col Pci fu un errore che Amato riconosce apertamente. Ma esso grava come una pesante responsabilità storica su Nenni e la leadership socialista. Si può dire che da allora il destino dei socialisti come forza secondaria, pattuglia di scorta, e non maggioritaria, della sinistra italiana fu segnato a lungo, se non per sempre. In Europa fu un’eccezione.
Giuliano Amato non esita, però, a precisare il ruolo doppio, ambiguo, giocato dai comunisti. A suo avviso, la “svolta” di De Gasperi non derivò dalla” conventio ad escludendum” ordinata da Truman al premier italiano. Ma “era dovuta al solco che si stava aprendo fra chi si collocava nella democrazia e chi coltivava l’adesione al sistema sovietico. Aveva senso per quel Partito socialista che aveva subito la scissione di Livorno schierarsi da quella parte? Detto questo, leggere il PCI come un mero rappresentante del Cominform e dell’Unione Sovietica, pronto a riapparire come partito rivoluzionario armato, è sbagliato”.[9]
Non si può dimenticare né minimizzare un altro importante aspetto: “il Pci aveva firmato e condivi so la Costituzione, i suoi esponenti avevano fatto battaglie per rafforzare le garanzie di libertà anche individuale”.
Ma per la storiografia è da un bel po’ di tempo che Togliatti e gli altri dirigenti non perdevano un attimo di tempo nel rincuorare i militanti, ribadendo la leggenda, ridotta a mito politico, dell’Urss: “Si discuteva di ‘fuoriuscita’ e la si ritenne anche compatibile con la stessa Costituzione. Tuttavia, quanto meno Togliatti sapeva benissimo che la conventio ad excludendum non era un’invenzione democristiana, nasceva dalla spartizione del mondo fatta a Yalta dai vincitori della guerra e di sicuro fu Stalin a comunicargliene le conseguenze: l’Italia era dalla parte Occidentale e ogni tentativo di spostarla avrebbe comportato per l’Urss turbolenze nella cintura dei paesi dell’Est europeo, che essa non voleva.”[10]
Il radicamento dei comunisti era, dunque, possibile solo nel cuore della democrazia parlamentare come avrebbe, seppure lentamente, mostrato il futuro.
“Certo nel 1948, scrive Amato, era ancora lontano, e l’immagine che davano, insieme, i socialisti e i comunisti del Fronte aveva inesorabilmente Mosca sullo sfondo. Per questo fu un errore, considerato tale anche da chi, come Pertini, rimase sempre orientato verso l’unità politica della sinistra”.[11]
La riflessione dell’ex premier socialista non si spinge oltre, cioè non si interroga se l’errore del 1948 non risieda in scelte dello stesso Nenni compiute molto prima, cioè negli anni Trenta.
Scorrendo le annate di Mondoperaio non si possono constatare prese di posizione derivanti da analisi e giudizi storiografici, e tanto meno un dibattito, sulla posizione assunta durante il fascismo dagli esponenti socialisti per quanto concerneva la formazione di uno schieramento politico unitario che includesse anche l’Urss.
Il dibattito degli anni Trenta: l’antifascismo europeo e l’Urss.
Sicuramente, in quegli anni, in una temperie politica dominata dalla progressiva disseminazione dei dispotismi di estrema destra in Spagna, Portogallo e Germania, oltreché in Italia, essa non era per nulla riassumibile e tantomeno identificabile in quella, invece, nettissima di Carlo Rosselli e di Giustizia e Libertà. Com’è notofecero propria l’esecrazione di un intellettuale in origine teoricamente e politica mente legato ai bolscevichi come Victor Serge.[12]
A Parigi, nel giugno 1935 con il titolo di Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, si tenne un convegno che venne promosso da un gruppo di scrittori francesi antifascisti, di varie tendenze politiche, con la partecipazione anche scrittori tedeschi in esilio e sovietici. La riunione vide riaccolti ben 230 delegati provenienti da 38 paesi. [13]
Con una dichiarazione resa dal carcere in cui era rinchiuso, Serge cercò di convincere gli intellettuali europei convenuti a Parigi che in Urss era stato instaurato un feroce regime terroristico, cioè un totalitarismo di sinistra. Lo fece formulando la domanda più penosa e significativa: i partiti democratici e socialisti dovevano allearsi con uno Stato e un partito che in Unione sovietica aveva soppresso ogni residuo di libertà spazzando via come un carro armato le speranze di rinnovamento che gli stessi bolscevichi avevano riposto nella creazione di nuove istituzioni statuali?
Era ben noto a tutti (a cominciare da Togliatti e da Pietro Nenni), e allora non fu mai un segreto, che il bolscevismo era una rivoluzione che veniva equiparata apertamente ad altre due rivoluzioni, sia pure di segno diverso, ed opposto, prima il fascismo e poi lo stesso nazismo.[14]Pertanto, diceva Serge, l’Urss non poteva essere eretta ad alternativa al nazi-fascismo, perché ne era l’altra faccia, la prosecuzio ne di essa.
Le posizioni di Franco Venturi e Giustizia e Libertà.
Questa analisi la si può rinvenire in un movimento a ispirazione liberal-socialista come Giustizia e Libertà, negli scritti di Andrea Caffi., Nicola Chiaromonte e Franco Venturi.
La riflessione sul rapporto tra democrazia e socialismo, cioè il legame tra libertà e rivoluzione negli anni 1932-1946, fu al centro sia di propri scritti sia dell’iniziativa politica di quest’ultimo. [15] Ma l’investimento fiduciario fu nella forza straordinaria data dall’ottobre rosso, in cui a prevalere non sono i singoli atti di governo e di partito, ma la mobilitazione continua delle folle, le loro speranze e aspettative, la passione per la tenuta della libertà finalmente ottenuta. E la capacità di essere una metastasi per un continente come l’Asia.
A lungo, fino a metà degli anni Cinquanta, in Venturi a dominare sugli stessi partiti comunisti (compreso quello di Togliatti) che egli disprezzava, fu il sentimento che la conquista della libertà e la fine delle diseguaglianze nelle masse popolari della sconfinata Urss avrebbe finito per avere la meglio, cioè andava oltre il ruolo dei bolscevichi e la loro (autoritaria e illiberale) gestione dello Stato appena creato.[16]
A tale grande speranza avrebbe fatto seguito nello stesso Venturi un altrettanto grande delusione, per non parlare di un vero e proprio “progressivo rinsavimento”, come lo ha chiamato Andrea Graziosi.[1]
Venturi, infatti, muove da un vivissimo senso dell’unità della cultura europea, che gli derivava dai suoi primi studi sull’illuminismo. Di qui nasce la fortissima attrazione per la rivoluzione russa, che sulla scorta di Croce e Gobetti interpreta come “liberalismo in azione”(tale classificazione andava bene per contrassegnare le origini del socialismo, ma poco e nulla per il comunismo).
L’entusiasmo del giovane storico non corrisponde a quanto effettivamente offriva la realtà sovietica, ma piuttosto all’idea molto personale (quindi alle convinzio ni e alle illusioni che su di essa egli si era potuto fare). e alla lettura del bolscevismo conquerant fornitagli da Piero Gobetti.
Ad avviso di Graziosi, la rivoluzione era “ancora non scomposta nei suoi diversi momenti e ingenuamente giudicata nel suo insieme ‘liberalismo in azione’ perché fondata sul risveglio alla dignità di grandi masse popo lari”.[17]Pertanto, Venturi vi esaltava “una tanto più insop primibile e spettacolare perché immaginaria energia della società nata dalla rivoluzione“.[2]
Né si può negare l’influenza che ebbe in lui la retorica ufficiale: “copriva una realtà ai suoi antipodi”, cioè “si nutriva di alcuni dei principi e degli ideali di cui egli si era nutrito”.[18]
Singolare fu la mancata percezione del “contenuto reazionario, tutto giocato sulla rivalutazione del nazionali smo grande-russo, del centenario di Puskin nel 1937, un Puskin esaltato per aver cantato la confluenza dei fiumi slavi nel gran mare russo”.
Venturi[19] si rivolgeva piuttosto all’anima russa, alla nazione, alla capacità dei suoi abitanti di assecondare l’avvio di un processo epocale come l’abolizione delle diseguaglianze. E non mancò la consapevolezza che in questa costruzione di un mondo nuovo si potessero compiere inevitabilmente errori, anche gravi, che investivano libertà e diritti.[20]Dalla criminalizzazione allo sterminio di migliaia di oppositori, dissenzienti e critici alla creazione di una cultura assoggettata al partito e allo Stato come lo zdanovismo.[21]
A riprendere, nel convegno parigino, l’analisi dell’intellet tuale russo[3],oltre Magdalein Paz (il cui intervento venne animosamente contrastato dagli scrittori russi e francesi filo-sovietici),fu Gaetano Salvemini (non facente parte della delegazione italiana)[4][22].
Se a farla vivere come una ferita aperta nella coscienza dei socialisti fu un vecchio compagno come il giellista Carlo Rosselli, a spuntarla furono purtroppo le posizioni della delegazione sovietica. Era riuscita a mitigare, anzi a mettere freno e silenziatore sul totalitarismo di sinistra assurto a un socialismo statuale, nel loro paese, in nome della battaglia per contenere l’esondazione da Roma in mezza Europa dell’estremismo di destra. A tener desto il pericolo incombente furono, invece, diversi scritti apparsi sempre su Giustizia e Libertà.
Questo socialismo, così come il patriottismo, era certo rivolto in primo luogo contro il ‘totalitarismo’ autoritario, gerarchico, grettamente nazionalistico, conservatore chiesastico del fascismo maturo, ma anche contro il socialismo “classista e economicista”.
Lo sforzo era quello di combinare le tradizioni della democrazia risorgimentale e di questo socialismo diverso per arrivare, riflettendo sulle cause della sconfitta del 1919-1922, imputata appunto al classismo, vale a dire al rifiuto dei socialisti di pensare in termini nazionali, a definire un progetto di giustizia e libertà. Esso doveva essere capace di conquistare la parte migliore della nazione, e non una sola classe (vale la pena di notare che è questo quello che poi Venturi farà fare ai suoi eroi del populismo russo).[5]
La sua diversità consisteva nel suo principale carattere, cioè nell’essere libertario, universalistico e soprattutto non clasista. Di esso già allora Venturi si preoccupava di ricostruire la genealogia nei suoi primi studi sull’illuminismo.
Omissioni e silenzi.
Fuori dall’interesse politico e dalla stessa riflessione sul passato di Mondoperaio rimase il cd socialismo di sinistra. È l’episodio su cui si è soffermato Andrea Stuppini nella conferenza qui riedita sul revisionism o della sinistra.
C’è da chiedersi come abbia potuto un socialista convivere col gruppo comunista bolognese dei seguaci di un dirigente come Claudio Sabbatini. Il suo operaismo dalla dimensione culturale non ha fatto un passo nella direzione di una rete istituzionale di auto governo del proletariato in un mondo imprenditoriale piccolo e medio come quello emiliano-romagnolo. È approdato, pur contestando con analisi ben documentate lo sfruttamento operaio delle micro imprese al centro del “modello emiliano” di sviluppo) fino ad incarnarsi in una corrente interna al Pci.
Grazie ad essa, che seppe legarsi alla sezione universitaria del Pci, e alla logica delle spartizioni in voga in seno ad esso, i compagni del leader regionale della Fiom Sabbatini hanno potuto esprimere dei dirigenti sindacali, qualche parlamentare, un sindaco di Bologna e un presidente della Regione. Ma si potrebbe sommare-sulla base di una convergenza (e uno scambio di amorosi sensi che non c’è mai stato) anche un intellettuale come Fausto Anderlini. Chi segue il suo blog ancora riesce a scodellarne un’infatuazione persistente per il conformismo più vario. Per la concezione di asse-piglia-tutto del Pci bolognese, per le riverenze più sperticate nei confronti di chi (come il sindaco Renato Zangheri) amò bollare il martirologio del giovane studente cecoslovacco Jan Palach come “eroe negativo” , per non essersi tenuto in vita e contrastare l’infame lavoro dell’Armata rossa a Praga), per il vetusto Lenin (contrapposto grossolanamente al povero Max Weber) e per il redivivo criminale di guerra Putin (con approvazione dell’avventura invasiva e aggressiva dell’Ucraina, e silenzio tombale per l’ospitalità da lui accordata ad un carnefice, suo pari, come il siriano Assad e la sua famiglia ecc.).
Il sindacalista socialista bolognese aveva individuato, non a torto, dei protagonisti in Rodolfo Morandi e dei continuatori, a loro modo, in Lelio Basso, Vittorio Foa e infine in Raniero Panzieri.
Aggiungerei che tenace e appassionato fu lo sforzo di uno storico come Stefano Merli (che ricordo con grande malinconia) nel cercare di rinvenire nel socialismo di sinistra una componente antiburocratica e non prona allo stalinismo. Un esito qua si impossibile.
Era anche assai arduo da accogliere perché in un paese come l’Italia dove le grandi crisi economiche e sociale del Novecento ebbero l’effetto di rafforzare i comunisti e indebolire, invece, grandemente i socialisti.
In secondo luogo, invece di aversi una spinta verso la socialdemocratizzazione della sinistra, si era venuta con solidando la tendenza ad un incremento sempre maggio re dei voti al Pci rispetto a quello minore, per di più sempre stabilizzatosi intorno al 9\11% del Psi.
Dopo le lezioni del 1976, Norberto Bobbio in una intervista a Paolo Mieli[24] (e in una precedente a Gaetano Scardocchia))[25], da una parte volle ribadire che la socialdemocrazia era l’unico terreno al quale i comunisti non erano potuti arrivare, per impadronirsene; dall’altra che l’alternativa di sinistra andava perseguita non come una tattica continente, revocabile stagionalmente come i cachi e le pere, ma come una strategia. Occorreva, quindi, mettersi alla testa del processo di rigenerazione della sinistra, rinunciando a fare da mediatori tra il Pci e la Dc. Anche perché, aggiungeva Bobbio in Italia “un partito socialista c’è, ma non è il partito socialista”, cioè era il Pci”.
Mondoperaio guida il rinnovamento
A guidare le danze nel secondo dopoguerra sul rinnovamento del Psi sarà appunto Mondoperaio, l’organo teorico del Psi. Dalla direzione di Federico Coen in avanti, una volta sedate-sempre più nel tempo, con le donazioni di quote di rappresentanza negli organi di partito e con incarichi di medio e basso livello- le contestazioni di Riccardo Lombardi e di Vittorio Foa, la grande operazione di svolta del Psi Bettino Craxi la lascia condurre ad un nucleo di intellettuali.[26]
Molti di essi (Giuliano Amato, Luciano Cafagna, Giorgio Ruffolo, i giuristi del lavoro Federico Mancini e Gino Giugni, Ernesto Galli della Loggia, Massimo L. Salvadori, Luciano Pellicani, Luciano Vasconi, il giovane Mauro Baccianini, ecc.) erano stati legati più che a lui soprattutto ad Antonio Giolitti.
A impressionare fu il comportamento immediato e successivo di Craxi. Avendo contribuito a riabilitare sul piano storiografico, oltreché politico, la socialdemocrazia, non si sentì indotto a trarne le inevitabili corpose conseguenze.
Si rimase, quindi, delusi e soprattutto sconcertati di fronte al fatto che comuni, province e regioni, organismi sindacali e cooperative continuavano a vedere associati i due partiti di sinistra. Eppure, Craxi aveva segnato la diversa identità e quindi misurato le reciproche distanze. Intendo dire che non ci furono rotture delle intese, cioè delle collaborazioni avviate prima sull’onda del Fronte popolare francese, poi nella guerra di liberazione dal nazi-fascismo in nome dell’unità delle sinistre e dell’antifascismo.
Non senza disagi, i militanti e gli amministratori si rassegnarono allo stato d’animo di subire il comporta mento poco coerente e anche contraddittorio di Craxi. Lasciarono prevalere l’orgoglio ritrovato di essere tornati ad essere come agli inizi degli anni Venti dei protagonisti. Il congresso a Bologna nel 1919 fu l’età d’oro in cui il Psi aveva la seconda più numerosa rappresentanza di eletti in parlamento, gestiva migliaia di amministrazioni comunali, gran parte delle cooperative e dello stesso movimento sindacale.
La messa a punto di Craxi (secondo cui assicurare il sostegno delle amministrazioni a guida comunista e democristiana non aveva niente di incompatibile) lasciò più trasecolati che convinti per le conseguenze che non ne volle trarre in un senso nell’altro. Ma tra i militanti, la base e i quadri intermedi avevano fatto sempre più breccia i valori che Nenni, De Martino, Basso ecc. avevano inteso difendere nel denunciare le torsioni autoritarie e dispotiche dei paesi cosiddetti socialisti. Si può dire che la base del partito fu allora più avanti della sua leadership.
La sorpresa del Pci perché Craxi condannava quasi tutta la loro storia e la loro politica, ma intendeva continuare a collaborare con loro, non fu minore di quella di chi, come le articolazioni del PSI, non ne furono preavvertite.
Il carattere macroscopicamente illiberale e antidemocratico dell’Urss e delle cd “democrazie socialiste” Nenni l’aveva enumerato più volte nei suoi interventi sulla stampa di partito e nella sua corrispondenza privata con Suslov: non solo il culto della personalità, ma anche la concezione del partito unico del proletariato, la mancanza di pluralismo, l’accentramenti dei poteri, la chiusura ideologica e culturale ecc.
Erano principi, regole che i socialisti, insieme ai comunisti, avevano inteso sancire come architravi della costituzione repubblicana e non potevano rinunciare a farli valere dove sembrava essere in corso l’edificazione di un mondo di liberi ed eguali.
Dopo la guerra di liberazione dal nazifascismo e la creazione di una repubblica fondata su una costituzione dal vigoroso impianto liberal-democratico, le cose stavano come le ha descritte Amato, vale a dire che Togliatti sapeva benissimo di non poter essere accolto non solo dagli iscritti al suo partito, ma da tutti gli italiani come un mero rappresentante del Cominform e dell’Unione sovietica.
Pertanto, i comunisti di Enrico Berlinguer non ebbero dubbi né remore nel declinare il mutamento imposto da Craxi come una virata inedita e radicale del Psi. Non verso una differenziazione più accentuata nella politica dell’unità delle sinistre, ma nel senso di una dislocazione sulle sponde dell’anti-comunismo.
A questo schema di omologazione nel comportamento politico corrisponde l’inesausta cultura del frontismo che, spostandosi dai rapporti con l’Urss a quelli col Pci, non subiva deroghe.[27]
Il frontismo si distende da Nenni a Craxi: cioè sia nella versione che ebbe come epicentro lo schieramento con l’Urss (malgrado giudizi platealmente negativi sul culto della personalità, il partito unico, il centralismo e l’estenuazione di ogni forma di democrazia nella costruzione del socialismo) sia nella versione che ebbe per epicentro la prosecuzione della collaborazione col Pci.
Questa non venne interrotta ad onta della dirompente campagna scatenata da Craxi contro il suo filosovietismo prolungato, la teoria del marxismo-leninismo e l’opposizione alle maggiori riforme del governo di centro-sinistra.
Allo stesso tempo, Craxi nel governo centrale e nei governi minori per alcuni aspetti intensificò, alzando il prezzo, la collaborazione con la Dc e i partiti di centro.
Questa sorta di “doppiezza” (intesa come volontà di non scegliere gli alleati con cui sviluppare la sua prospettiva e disegno futuri) derivava da quello che va ch
iamato col proprio nome, un errore, un grande errore politico.
Il suo peso nella politica dei decenni successivi non si è voluto calcolare, ma fu enorme. Oppure si trattò anche di altro?
Lo si può anche chiamare senso illimitato di responsabilità nel tenere fede alle alleanze oppure concezione quasi assoluta della necessità di stare al governo o, più spicciativamente, vocazione al governismo puro e semplice. Quindi ossessione o vera e propria stimmate.
Le stimmate del Psi di Craxi.
In realtà, dopo il 1956 e dopo la grande mutazione proposta da Craxi, si assiste alla ripetizione di una vecchia pagina, e si riepiloga una storia già vista, quella del frontismo.
Grazie a Scirocco possiamo delineare gli elementi di questa cultura e conseguente prassi politica che è diven tata quasi le stimmate del Psi. In sintesi, mi pare si possa dire che i socialisti riescono quasi sempre a mantenere una loro capacità e autonomia di analisi, ma da essa fanno derivare un comportamento politico obbligato. Direi poco o mai coerente, e consiste nell’allinearsi al partito o all’evento di cui hanno rilevato criticamente incongruità o misurato un loro forte dissenso.
Con la denuncia delle collusioni e delle complicità di Togliatti e della leadership del Pci con i principali atti (e micidiali crimini) della politica sovietica (da Lenin a Stalin, a Gorbaciov e Eltsin), la storia della socialdemocrazia ne veniva rivalutata. Questo era un punto acquisito.
I leaders socialisti come Hilferding, Bauer, Nenni prima liquidati da Togliatti come fascismo dissidente o sociali smo di sinistra e poi (silenziosamente, com’è ovvio) riabi litati, con 50-60 anni di anticipo avevano proposto una “terza via” alternativa a quella comunista e a quella socialista italiana, evitando, però, una resa senza condizioni alla linea dello stalinismo.[6]
Ci furono, dunque, dei leaders socialisti, come quelli prima citati, che avevano vissuto con decrescente entusiasmo e spirito giustificatorio, il rapporto con Mosca e, nel caso italiano, i rapporti col Pci. Spesso non furono alieni dal ritrovarsi, seppure un po’ spaesati, in quello che si può chiamare il sub-stalinismo di Togliatti. Il segretario del Pci fu più affetto dalla sindrome del continuismo della storia post-bolscevica che dal vento del rinnovamento e delle innovazioni incarnate da Gorbaciov.[28] Il Pcus e lo Stato sovietizzati non esitarono a respingerle come raffiche di riforme eccessivamente iconoclaste.
I socialisti erano stati fino al 1956 sulla stessa lunghezza d’onda, ugualmente dominati dal fascino e dalla forza del sovietismo, cioè di Stalin.
Anche la rivista Mondoperaio, prima con la direzione di Nenni (un leader rimasto prigioniero quasi vita natural durante della cultura e della politica del frontismo) e poi con quella di Raniero Panzieri (il futuro fondatore, a Torino, dei Quaderni rossi, teorico – insieme al più noto e fascinoso Mario Tronti – dell’autonomia operaia e dell’auto-governo del proletariato che richiamava analisi e proposte del sindacalista socialista Vittorio Foa) venne coinvolto in questa litania.
I socialisti, e non solo essi, privati dell’apporto di Rosselli, si illusero che le cose fossero diverse. Avevano fatto orecchie da mercante anche quando, sulle colonne della rivista di GL, Franco Venturi aveva illustrato la filiazione dal marxismo dei dispotismi di destra e di sinistra. [29]
Egli attribuì la vittoria del fascismo in Italia all’impostazione “classista ed economicista” della politica del Psi. Era figlia di una concezione del socialismo non libertaria, non universalistica e non classista, cioè diversa da quella marxista dominante.
Venturi riflettendo sulle cause della sconfitta del 1919-1922, le imputa a un doppio rifiuto dei socialisti, vale a dire di pensare in termini nazionali invece che nazionali stici e, in secondo luogo, al rifiuto di definire un progetto di giustizia e libertà in grado di conquistare la parte migliore della nazione, invece che una sola classe.
Un’eccezione su questo taglio sarà molti anni dopo la riflessione che venne portata avanti, per un lungo perio do abbastanza isolatamente, da Luciano Pellicani.
Nella battaglia ideologica degli intellettuali socialisti non mancarono, come ho detto, buchi e assenze.
Il liberismo di rito einaudiano
Oltre quella, che ho già segnalato, sul cd socialismo di sinistra, la seconda fu un’assenza sensibile come la messa a punto dei rapporti tra il liberismo (inteso diversamente dalla sua mistificazione, il laissez faire) e il capitalismo.
Sembrava fosse un problema realisticamente inesistente. Mi riferisco al fatto che in Italia dopo la seconda guerra oltre il 50% (arrivato di recente all’80%) del Prodotto interno lordo fu opera di imprese pubbliche o finanziate dallo Stato. Quindi lo spazio riservato alle imprese private è stato assai contenuto.
Credo che l’ampiezza del controllo pubblico sulla produzione, commercio e distribuzione abbia inciso successivamente sulla grande difficoltà della leadership del Psi a definire che cosa intendesse per socialismo. Una volta che aveva abiurato i modi e la stessa ideologia di costruire in Italia un sistema economico modellato, se non uguale, a quello installato dal Pcus in Unione sovietica, sul piano politico il frontismo del Psi poteva essere assimilato allo stalinismo del Pci?
Agli inizi degli anni Sessanta dopo le politiche di programmazione economica proposte, nel primo governo di centro-sinistra, da Antonio Giolitti e Riccardo Lombardi, la navigazione è stata lunga, ma a fari spenti. Se n’è ricavata l’impressione (non solo da Vittorio Foa che l’ha scritta) che Il Psi di Craxi si sentisse idoneo solo ad una battaglia corpo a corpo, ente per ente, per la conquista e il controllo di maggiori fortini e fortezze del vecchio Stato.
Il primato della politica non sembrò varcare il confine della ricerca di un’amministrazione più efficiente, sollecita anche a sanatoria di storiche diseguaglianze e arretratezze. Era il volare basso, la rassegnazione alla politica delle spartizioni, la mera resistenza al partner concorrente di questo negoziato per il controllo del potere dall’alto (la Dc).
Il riformismo di Giolitti fino alla proposta di piano (lanciata da Lombardi dalle pagine dell’Avanti! di cui era direttore) ha cercato di sperimentare il superamento di un modo di produzione assai lungo e datato. Con le eccezioni rappresentate dalla politica interventista dello Stato fascista (Iri, Imi, assicurazioni e poi Eni), aveva molto a che fare col giolitttismo, cioè con un laissez faire incontrastato e anche selvaggio,e poco col liberismo di Luigi Einaudi.
Il riscatto in nome della coesione sociale, col rovesciamento delle posizioni fino ad allora sostenute, fu come la scoperta di un altro mondo.
Per mano dei due ministri socialisti il liberismo einaudiano ha recuperato il suo significato originario di strumento (Luigi Einaudi rifiutò sempre di chiamarlo dottrina) di valorizzazione del più capace (che in Italia ha quasi sempre coinciso col più ricco), ma a partire dall’eguaglianza dei punti di partenza.
L’obiettivo della coesione sociale in Einaudi fu molto più spiccata che non in un partito orgogliosamente di classe come Psi. Essa è consistita nel delineare una versione particolare, non famelica, del liberismo.
Ha riguardato la necessità di creare condizioni, a carico dello Stato, di pari opportunità nel concorrere alla vita del mercato.[30]Di qui i diversi tentativi di fornire garanzie (purtroppo in maniera e misura scarse e non organiche) ai meno fortunati con una politica di sostegno e riduzione delle differenze economiche e sociali di partenza.
Maggiori sarebbero stati i risultati se si fosse stabilita una collaborazione più intensa con la scuola schumpeteriana di economia che in Italia è stata incarnata da Paolo Sylos Labini[31] e Alessandro Roncaglia.[32]Ma il passato e la cautela (il moderatismo) rappresentata dalla Dc ha finito per prevalere sulla domanda e sullo spirito di innovazione dei socialisti.
C’è da chiedersi se la propensione per un’alternativa di sinistra piuttosto che per la collaborazione con la Dc da parte di Lombardi non abbia inciso.[7]
Comunque dalla ricostruzione critica di questo volume edito da Biblion ,si capisce meglio il percorso di Lombardi. Non imita Vittorio Foa aderendo alla scissione dello Psiup,ma non rinuncia a sfidare il governi di centro-sinistra mettendo a fuoco qualcosa di inaudito per la maggioranza della Dc, cioè una mappa di ambizioni, che sono poi esigenze connesse ai bisogni di un altro modello di organizzazione sociale. Se ne può cogliere l’ampiezza e l’ambizione nel cd «discorso di Piacenza» (opportuna mente riportato nel volume) che a ridosso della conquista craxiana Lombardi rivolge al suo partito.
La coabitazione del Psi da una parte con la Dc e dall’altra col Pci lo ha condannato a essere l’asse portante della governabilità dell’intero paese. Non credo possa dirsi che ha funzionato e comunque non è stata efficace.
Negli anni Sessanta e Settanta, ci fu meno vaghezza nel prendere le misure della guerra fredda e dell’uscita delle sinistre dal governo. A parte la litania sulle diavolerie di un’antica bestia rapace e feroce come l’imperialismo americano, vennero meno gran parte dei dubbi che ogni riforma mancata, ogni passo indietro, lo snaturamento delle proposte di riforme fosse dovuta alla cautela o alla resistenza conservatrice della DC degli alleati di oltre atlantico.
Stefano Merli ha parlato del togliattismo come di una forma di stalinismo all’italiana, intendendo riferirsi al metodo del segretario del Pci di innovare poco e conservare molto.[33]
Mi limito a rilevare un limite ancora più grave, vale a dire al fatto che nelle pagine di Mondoperaio è arduo trovare una definizione di quel che si intendeva per socialismo, cioè di quel che si voleva costruire con metodi e soluzioni diverse da quelle realizzate a Mosca, in Cina, e nei paesi del patto di Varsavia.
A dominare la mappa delle interpretazioni è una sola convinzione, vale a dire che il Psi fosse diventato il classico partito medio. Quello che, nei saggi della politologia e della sociologia politica, era considerato indispensabile per costituire delle maggioranze in parlamento, nel governo centrale e nei governi regionali, provinciali e comunali.
Purtroppo il Psi dopo il 1948 non ebbe la forza elettorale per essere il perno di tutte le alleanze. Era, e rimase, un alleato che disponeva di più eletti del Pli, del Pri e del Psdi. Pertanto, serviva a fare le maggioranze, non ad esserne l’epicentro. Di qui la polemica, svolta con un’inutile mala grazia, con Norberto Bobbio che insistette a farglielo presente.
Il filosofo torinese non aveva torto a ribadire che in Italia non esisteva una “questione socialista”, ma un problema più vasto, cioè “una questione della sinistra”, di cui il Pci e il Psi erano due componenti essenziali. Derivava dal fatto che i due partiti erano inassimilabili ai loro compagni di tutte le altre democrazie occidentali e, peggio ancora, dal fatto che in questi paesi i socialisti erano maggioritari rispetto ai comunisti.
La storia del Psi è incomprensibile (e si presta ad essere vilipesa e distorta) se non ci si rende conto che si è svolta lungo i due grandi processi riformatori prima citati. Il suo inconveniente e handicap più grave fu che invece di essere contestuali furono disgiunti.
Essendo stati addirittura separati uno dall’altro finì per perdersi il senso del disegno complessivo. Non solo nel progetto politico di trasformazione, ma anche nello spazio temporale che è misurabile nei 20-30 anni che separano i governi Moro-Nenni del 1962 dal governo Craxi.
La disponibilità infinita a reggere il governo centrale e i governi minori, condividere le responsabilità nella gestione dei sindacati e delle cooperative, non hanno potuto evitargli strali e ingiurie. Per un uso abusivo del potere, si è amato dire e ripetere.
Bisogna, invece, imparare anche a chiedersi: che cosa è cambiato negli istituti di credito, nelle assicura zioni, nelle imprese energetiche, nei fondi di investimento ecc. nei cui gruppi dirigenti sono stati cooptatati dei socialisti? Il finanziamento (sotto ogni forma) ad artigiani, piccole e medie imprese, organizzazioni cooperativistiche, singoli imprenditori ecc. è stato più facile o non è mai cambiata la logica per per cui a poterne usufruire dell’estesissimo potere di influenza degli istituti creditizi è stato chi aveva propri redditi o “santi in paradiso”, cioè pesanti coperture politiche, cioè a prescindere dalla capacità di fare buoni investimenti?
Negli anni Venti Gramsci accusava il Psi di non avere una conoscenza se non embrionale e generica dei territori e degli strati sociali in cui era concentrato il suo grande potere di influenza. In relazione alla metà degli anni Sessanta del nuovo secolo si può ribadire la stessa osservazione critica.
Il Psi non ha mai provveduto a fare anche solo una lista dei centri di potere controllati in maniera diretta o indiretta. Non si sa se abbia formato, e possa disporre, di un ceto di manager e di tecnici in economia, negli appara ti finanziari, nelle infrastrutture ecc. Sembra che il lungo esercizio del potere non abbia prodotto alcun risultato e dei responsabili ai quali si dovrebbe poterne chiedere conto.
La partecipazione dei socialisti ai governi di fronte popolare (a cominciare da quello francese del 1937??) si basò su un tragico errore. Come quello di non prevedere, e adottare, nessuna misura di sicurezza e presa delle distanze.
Mi riferisco all’importanza di stabilire nei programmi che la convergenza con i comunisti corrispondeva non ad una alleanza, ma ad uno stato di necessità e, pertanto, non venivano minimamente a perdere valore, efficacia ed attualità la denuncia dell’inferno autoritario e repressivo che dominava l’Unione sovietica.
Il Psi e l’enigma del socialismo
Si prova, pertanto, la sensazione che una volta prese le distanze critiche le socialdemocrazie del Nord Europa, il socialismo resti un incognito, una terra promessa, ma con un volto enigmatico, da sfinge.
È rimasto depurato di ogni legame col sovietismo, ma anche con più di una riserva nei confronti delle social democrazie.
Berlinguer, con insuperabile sfrontatezza, le aveva poste sullo stesso piano del comunismo sovietico, per liquidarle (cioè per non riconoscere che i socialisti avevano, invece, vinto) inventandosi una magica e misteriosa “terza via”.
Al massimo da parte del Psi si usavano formule negative, a mezza asta, cioè parziali: regime non dell’ eguaglianza, ma della riduzione delle ineguaglianze; non della fine del mercato e del laissez faire, ma dei monopoli e del capitale finanziario; non del capitalismo, ma dell’arretratezza e della rendita (al più dell’equo profitto di Luigi Longo) ;non della condivisione, ma dell’assistenza allargata; non del bando definitivo delle ingiustizie e dello sfrutta mento, ma dell’autogestione operaia del tempo libero ecc.
Al tentativo di uno storico come Franco Venturi[8]di delineare le differenze più importanti tra socialismo e comunismo non arrisero una fortuna maggiore di quelli compiuto da Norberto Bobbio.
Questa incertezza lessicale nel fare riferimento al principale valore\ obiettivo del movimento dei lavoratori è rimasto un elemento permanente. Caratterizzerà, cioè, lo scenario del domani, la società dei liberi ed eguali. Ma intanto ha sortito un effetto deleterio. Ha esposto il Psi all’accusa di essere un partito di potere, anzi, peggio, di sottogoverno, una sorta di asso-piglia-tutto., se non addirittura un’associazione a delinquere.
Come mai, durante il governo di centro-sinistra e negli Esecutivi guidati da Bettino Craxi e Giuliano Amato il socialismo di sinistra non ha avuto un grande ruolo?
Anche questa fu un’occasione mancata perché il riformismo del centro-sinistra fu osteggiato dai comunisti e quindi non potè contare su un grande sostegno sociale, una mobilitazione di massa. In secondo luogo perché con la fondazione del Psiup si spezzò anche temporalmente in due tronconi.
Nel primo ebbe come riferimento i ministri Giolitti e Lombardi e prese di mira una riforma del capitalismo mediante uno schema di pianificazione. Se non pregiudicava il funzionamento del sistema (come sia Lombardi sia Giolitti non mancarono di avvertire), era pur vero che mai era stata tentata nella storia idel capitalismo italiano.
Nel secondo ebbe per rifetimento l’ampio progetto di riforma istituzionale elaborato da. Giuliano Amato. Essendo stati portati avanti disgiuntamente e in periodi diversi, molto distanti l’uno dall’altro, persero ogni efficacia. L’esito è stato una riduzione di peso e vigore per il governo Craxi che alla fine, esaurito l’eco avuta sulla stampa, ha potuto gestire solo la sua sopravvivenza e rinunciare ad ogni ambizione riformatrice.
Era un esito atteso. Norberto Bobbio aveva tempesti vamente precisato che il ridotto peculio elettorale del Psi (oscillante appunto tra il 9 e l’11%) non lo candidava neanche ad essere il classico partito medio indispensabile ad assicurare la governabilità, sia con la Dc sia col Pci. Come poteva Craxi illudersi di dare le carte e dirigere il gioco, dal momento che in nessuno dei due poli in cui era costretto ad operare disponeva della maggioranza relativa necessaria?
Il ruolo del Psi è stato quello del partito che proveniva da una grande tradizione, aveva cercato di trasformare le plebi in cittadini protagonisti, ma di dimensioni troppo modeste per poter essere l’epicentro di una maggioranza, con la Dc o col Pci.
L’ipotesi del socialismo secondo Vittorio Foa
Vista la fine (da ruota di scorta del Pci) di queste due formazioni, mi pare sia più realistico parlare, come mi sembra abbia accennato a proporre Stuppini, di una reinvenzione della sinistra socialista in un terreno più suo proprio, che va oltre il consiliarismo. Il riferimento non è più a Nenni e a Morandi, ma un leader della Cgil che ha avuto una sensibilità impareggiabile per i ptroblemi della storia del movimento operaio come Vittorio Foa.[9]
Il carattere nuovo del capitalismo nazionale e internazio nale lo inducono a ripristinare una lettura dei bisogni, delle forme di lotta e di organizzazione della politica operaia. Sono quelle del passato, addirittura meno prossi mo, ossia delle origini del movimento operaio.
Centrale diventa l’autonomia del lavoro, l’attenzione ai tempi e alle condizioni in cui esso si svolgeva.
E’ maturata la coscienza che il reticolato dei poteri parlamentari, la natura e il funzionamnento le forme dei partiti di sinista e dello stesso sindacato debbano essere interamente ripensati.
In questi contesti vanno assunte come inevitabili anche le differenze,le vere e proprie lotte in seno alla stessa classe operaia.
Su questo progetto di ammodernamento radicale del socialismo finice per trasparire una proposta originale, cioè il socialismo deve essere una costruzione molecola re,interna al lavoro quotidiano, alla fatica, alle molte for me di sfruttamernto della classe operaia. Non nasce in parlamento e non può essere fornita né dalle istituzioni dello Stato né dalle formazioni politiche.
Foa[7] tornava a insistere sulla necessità di superare «modelli antiquati, logori, come il modello staliniano che identifica la lotta sociale con la fedeltà a uno Stato, l’area della lotta nella società con i rapporti interstatali».In questo secondo aspetto egli colloca il delinearsi di una una seria crisi e politica economica quando le rivendicazioni e le lotte non sono facilmente assorbibili o trasferibili da parte dei capitalisti sui prezzi o sulla intensità del lavoro.
Il terreno su cui la risposta va data non è quella dei paesi del patto di Varsavia nè del castrismo. Torna la centralità dell’Europa occidentale, dove il capitalismo si era interna zionalizzato, governi, mercati e finanza concertavano le proprie azioni, scaricando le proprie contraddizioni sulla classe operaia. Bisognava quindi prendere un’iniziativa a livello internazionale «verso tutte le altre forme di sinistra operaia, indipendentemente dai loro orientamenti più o meno riformisti, un’iniziativa per una consultazione sui cosiddetti problemi della congiuntura, che poi non sono affatto di congiuntura, ma sono nient’altro che il modo di vivere e di essere dello sfruttamento capitalistico a livello nazionale e internazionale»[8].
Con le elezioni politiche del 1972 e il quarto congresso nazionale del Psiup (tenutosi a Roma dal 18 al 21 luglio 1972), Foa non solo evita di aderire al Pci impegnato nel “compromesso storico”, ma proclama la sfiducia crescente nella capacità degli istituti della democrazia parlamentare nel garantire e difendere gli interessi della classe operaia.
Dopo la fine del comunismo e la crisi della socialdemocrazia, l’unico socialismo possibile gli appare quello libertario.
Ripristino, dunque, di democrazia e redistribuzione dei redditi? Certamente, ma a condizione di porre al centro del quadro «l’autonomia del lavoro, l’auto-determinazione del lavoratore, la sua possibilità di intervenire sul suo lavoro, sulla sua vita»[9].
È da una visione semplificata rispetto alla realtà che il socialismo nella sua dottrina prevalente e più matura ha tratto l’idea di un processo ineluttabile per-cui la sostituzione del lavoro artigiano (urbano o rurale) avrebbe portato a uno scontro finale fra le classi e quindi alla fine della divisione sociale del lavoro fra le classi. La divisione reale, storica, della classe operaia, deve essere un punto di partenza per l’analisi delle difficoltà e anche delle sconfitte delle idee socialiste. La vicenda della lotta fra le classi non sono unilineari, sono piene di regressione e di rotture[10]
Di qui anchi l’attenzione sul valore “ritrovato” del tempo, sulla necessità di riappropriarsene, anche in una dimensio ne di lavoro libero e creativo, «una utopia però strettamente collegata con un’analisi sociale concreta»[11].
Di qui anche la resistenza intelligente, non chiusa e settaria, all’estremismo (anche dei Quaderni rossi da lui allevati, se non legittimati). Forse era tornata la consapevolezza che il capitalismo confermava la sua caducità (cioè il carattere storicamente determinato). Ma, come insinuò con qualche sarcasmo Giorgio Ruffolo, era misurabile e su una scala temporale di diversi secoli ancora.
[1] Si veda l’intervento Proposizioni nel fascicolo 11-212 di Mondoperaio dedicato ai rapporti tra socialisti e cattolici.
[2] Rimando all’accurata ricostruzione proposta da Giovanni Scirocco (che ringrazio per la sua collaborazione) nel volume Una rivista per il socialisno.”Mondo Operaio” (1957-1969), Carocci, Roma 2019.Lo avevano preceduto, con esiti diversi, oltre allo stesso Coen, A.Accolti Gil, M.Gervasoni,M.L.Salvadori ecc.
[3] Mi riferisco a Ieri,oggi, domani, in La questione socialista, a cura di Vittorio Foa e Antonio Giolitti, Einaudi, Torino 1987,pp.
[4]Si veda la ricognizione sul piano politico e stori co avviata da Andrea Graziosi, Vittorio Foa e la si nistra italiana, 1933-2008, “Il mestiere di storico, V, 1, 2012,pp.
[5] Resta centrale, anche se rimasta senza nessuna risposta da parte dei comunisti, l’estesa ricostruzione storica di Ernesto Galli della Loggia, Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, il Mulino, Bolo gna 2016.
[6] Si vedano i saggi di Mario Del Pero, L’alleato scomodo: gli USA e la DC negli anni del centrismo, 1948-1955, prefazione di Federico Romero, Carocci, Roma 2001, e Giorgio Ve cchio, Guido Formigoni e Paolo Pombeni Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993, il Mulino, Bologna 2023.
[7] Per una sintesi mi pare essenziale il richiamo ad un capolavoro discorsivo come il saggio Duello a sinistra,il Mulino,Bologna 1982, che avuto per autori Giuliano Amato e Luciano Cafagna .
[8] Si veda Pietro Adamo, Le tentazioni dell’impolitico. Eretici, irregolari ed eterodossi nella sinistra italiana prima del ’68,pp. 24-44.
AG.Amato, Proposizioni cit.
[10] Ibidem
[11] Ibidem
[12] Si vedano i suoi numerosi scritti in francese (ma rinvenibili anche in italiano presso piccoli editori), come ha mostrato.
David Bidussa nell’appendice bibliografica del suo recente saggio Pensare stanca, Feltrinelli, Milano 2024
[13] Per un’analisi ravvicinata si veda l’importante ricostruzione a più mani curata da San dra Teroni, Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, Roma, Carocci 2002. (
[15] Si veda Franco Venturti, Scritti sparsi, a cura di Guido Fran zinetti ed Edoardo Tortarolo,Aragno, Torino 2022
[16] Mi pare opportuno rimandare all’ampia riconsiderazione critica della certezza vissuta da Venturi nella sua lunga sosta tra Leningrado e Mosca e anche per la metà degli anni Cinqu anta dopo li rientro in Italia. Il riferimento non può che esse re alla ricostruzione di Edoardo Tortarolo, Franco Venturi e il comunismo, in ??? (a lui si debbono illuminanti pagine sull’ev oluzione del pensiero di Venturi come L’ esilio della libertà.Fran co Venturi e la cultura europea degli anni Trenta -nel volume curato da L. Guerci e G. Ricuperati-e La rivolta e le riforme. Appunti per una biografia intellettuale di Franco Venturi,“Studi settece nteschi” ,1995, pp. 5-39.)Cfr.anche l’analisi che alla sua espe rienza di addetto culturale(dal giugno 1947 al maggio 1950) presso l’ambaciata italiana a Mosca hanno dedicato B. Bongiovanni, L. Casalino, A. Agosti e G. De Lu a.,A. Viaren go e in particolare Andrea Graziosi, Nazione, socialismo e cosmo politismo L’Unione sovietica nell’evoluzione di Franco Venturi . Roma 2005, negli “An nali della Fondazione Giangiacomo Feltrinel li” deidcati a Venturi e la Russia, a cura di Antinello Venturi.
[17] A.Graziosi, Nazione, socialismo ecc. cit.
[18] Ibidem
[19] Si veda il puntuale saggio di Pier Giorgio Zunino, Socialismo e liber à nel giovane Venturi, pp. 375-409, in Lucia no Guerci e Giuseppe Ricuperati, a cura di, Il coraggio della ragione:Franco Venturi intellettuale e stori co cosmopolita, Fon dazione Luigi Einaudi, Torino 1998.
[20] Per una ricostruzione quasi esaustiva del suo pensiero si vedano,insieme a quelli ptima citati di Edoardo Tortarolo, il saggiod i Adriano Viarengo, Franco Venturi, politica e storia nel Novecento. Carocci, Roma 2014.
[21] Si veda il saggio di Vittorio Strada, Il realismo socialista, Storia della letteratura russa,vol. III.3:Dal realismo socialista ai nostri giorni giorni, Einaudi, Torino, 1991, pp. 5-32.; Id., Da Lenin a Putin e oltre – La Russia tra passato e presente, a cura di Vittorio Strada, sintesi del corso di Storia della
Salvatore Sechi
Ordinario di Storia Contemporanea
[1] A. Graziosi, art. cit.
[2] Ibidem
[5] A. Graziosi, art. cit.
[6] Consiglio la lettura, dell’intervento di Attlilio Mangano e Stefano Merli, Ripensando la politica unitaria. Lettera aperta a Luciano della Mea, “Il Ponte”, novembre-dicembre 1989, p. 23.
[7] La riflessione storica sull’azione di Lombardi dalla militanza nelle oganizazioni cattoliche, e poi nel Partito Italiano d’Azione per poi approdare nel Psi si sta arricchendo. Si veda l’analisi più recente intitolata Tre interventi per tre stagioni. Dall’azionismo al socialismo critico, introduzione e cura di Jacopo Perazzoli e Giovanni Scirocco, postfazione di Paolo Bagnoli, edito da Biblion, Milano 2024.
[8] Si veda il volume Comunismo e socialismo. Storia di un’idea, a cura di Manuela Albertone, Daniela Steila, Edoardo Tortarolo, Antonello Venturi, Università di Torino, 2014.
[9] Ne sono una testimonianza l’acutezza dei suoi numerosi saggi pubblicati dall’editore Einaudi, e non solo.
22 Si veda l’Hommage a Victos Serge(1890-19ì47) pour le centernaire de su nasissance, in ”Cahiers Poulaille”,1990, n.4-5 e la ricostruzione del dibattito curata da Sandra Teroni nel volume La difesa della cultura. Scrittori a Partigi nel 1935, Carocci, Roma 2022
23. Enzo Collotti., Gaetano Salvemini: una“nota stonata”, pp. 82-91 in Sandra Teroni, a cura di cit.,