di Chiara Lopresti
Di recente ho fatto una serie di colloqui per un’azienda che sta assumendo scrittori in massa, da ogni parte del mondo, per inserirli in una serie di progetti avente come protagonista l’IA.
Quando ho letto l’annuncio mi sembrava la proposta perfetta: lavoro part time, da remoto, in cui le competenze linguistiche e scrittorie vengono messe a disposizione di un mondo nuovo, più artificialmente intelligente. È da quando mi sono iscritta all’università che tutti intorno a me storcono un po’ il naso, consigliandomi parallelamente di scegliere una facoltà più al passo con i tempi. Ecco allora la mia occasione per stare al passo con i tempi.
A mano a mano che i colloqui procedevano, però, ho cominciato a provare uno strano senso di nausea: part time, da remoto, al servizio delle intelligenze artificiali. Al loro servizio. Quello che avrei dovuto fare nel corso di quelle quattro ore, seduta nel comfort casalingo della mia scrivania, era semplicemente scrivere per educare le IA. In soldoni, avrei ceduto i miei dieci anni e passa di esperienza, di labor limae continuo sullo stile, sulla lingua, ad un computer che in meno di una giornata avrebbe imparato a riprodurre fedelmente il mio modo di scrivere.
Davanti a me un uomo sulla quarantina mi dice che questo è il futuro della mia professione. Chiudo il computer e mi chiedo se non abbia effettivamente ragione. Se effettivamente non ho tra le mani l’occasione di dimostrare che le mie scelte sono corrette e le mie competenze sono utili al mondo digitalizzato. Un ronzio continuo però non mi permette di essere completamente convinta della proposta – concreta – che ho per le mani.
Scrivere non è solo un modo di esprimersi, è principalmente un modo di vedere il mondo. Di osservarlo e di capovolgerlo criticamente. Molto prima della scrittura vi è la fase di riflessione, di costruzione, di immaginazione. Arrivare a descrivere una semplice scena di due persone al bar in modo che il messaggio sia chiaro o emozionante o divertente è lungo e complesso. Si potrebbe dire che non si descrive niente di speciale, solo due persone al bar; ma quelle due persone potrebbero essere i protagonisti della storia più eccezionale, ardimentosa, commovente, spaventosa, avventurosa e il primo a saperlo sarebbe sempre lo scrittore.
Perché si scrive? Per creare un mondo possibile, in cui tutto può accadere. Per riflettere su ciò che ci circonda, sulla società in cui viviamo. Per ribellarci alla tirannia, politica e sentimentale. Per riportare alla luce sentimenti sepolti. Per capire e mettere ordine. È un processo lungo, spesso totalizzante, fatto di prove e cancellature. Ma è il processo più umano che esista. Saul Kripke, in Nome e necessità, ipotizza la potenza del nome (proprio o comune) nella creazione del mondo a priori o posteriori: è il linguaggio a creare il mondo, non il contrario. Per poter interpretare il reale o l’irreale abbiamo bisogno di parole per poterlo descrivere. A necessità, ecco che si crea il nome.
Si potrebbe obiettare che il mondo tangibile esiste anche senza una descrizione, che un animale con le caratteristiche di una tigre esisterebbe anche se non la si etichetta con un nome. Esisterebbe sì, ma noi non saremmo in grado di riferire, di parlare, di pensare, perché tutto avrebbe caratteri poco definiti e impossibili da afferrare. E per quanto le intelligenze artificiali siano già in pochi anni spaventosamente avanzate, ancora non sono in grado di dare un nome al nostro reale. Mi chiedo però se cedere il nostro modo di interpretarlo non permetterà loro di arrivare a farlo.
Mi sono domandata per qualche giorno perché avessero bisogno proprio di scrittori per questo genere di lavoro. Non sarebbe più facile dar in pasto i dizionari di tutte le lingue standardizzate? Non sarebbe abbastanza? Mi sono resa conto solo dopo che lo scopo non è far ingurgitare alle intelligenze artificiali quante più parole possibile, ma far loro apprendere il modo in cui ogni persona che partecipa a questi progetti impasta le parole per far emergere il proprio pensiero. Non vogliono soltanto che scrivano come noi, ma che pensino come noi per poi renderci la vita più facile. Ma ce la facilitano davvero?
Già naturalmente la lingua viva ha la tendenza a semplificare (basta comparare un libro scritto negli anni ’50 e uno contemporaneo per rendersene conto) ma se, contingentemente, ci convinciamo che scrivere è un fardello piuttosto che un modo di esprimersi, il rischio è quello che la lingua non solo si semplifichi allo stremo, ma che muoia del tutto. E se muore la lingua, ripeto, muore anche il mondo in cui viviamo.
Con questo non desidero mettermi contro la inevitabile evoluzione tecnologica in cui ci troviamo in questo momento, sarebbe di certo un atteggiamento miope. Quello che obietto è la creazione di un sistema in cui tutto è considerato un peso di cui liberarci (per fare cosa al suo posto, ancora non è chiaro) che ci porta però a smettere di pensare, di interrogarci, di osservare. Se si standardizza il modo di esprimerci, si perdono le sfumature di tutto ciò che ci circonda e il rischio è quello di anestetizzarci, di atrofizzare le emozioni, di perdere il muscolo dell’empatia. Il rischio è di creare delle generazioni più facilmente controllabili, incapaci di ogni forma di ribellione perché private del loro pensiero critico.
Penso si sia già compreso, ma non ho accettato il lavoro. Sicuramente ci saranno altri che lo avranno fatto e i progetti avanzeranno senza indugio. Non con le mie parole, però. Quelle le conservo gelosamente.