ANCORA COLPI ALLA CREDIBILITÀ DELLE ISTITUZIONI E ALLA DEMOCRAZIA

di Franco Raimondo Barbabella

Lo sapevano anche gli antichi greci che l’apparenza inganna, ma nell’epoca dell’impero comunicativo planetario questa affermazione da principio di prudenza diventa legge di orientamento civile. Prendiamo i due casi del momento: l’UNRWA (agenzia ONU per i rifugiati) a Gaza che si certifica strumento di Hamas e Al Masri, il generale libico arrestato, liberato e rimpatriato con aereo di stato, che appare così potente da piegare lo stato ain suoi voleri. Due casi in cui, uno a livello internazionale e l’altro a livello nazionale, le istituzioni distruggono la propria credibilità e insieme alla democrazia liberale prendono un altro colpo in testa.

Il caso UNRWA. Già c’erano prove che membri UNRWA avevano partecipato al pogrom del 7 ottobre, e già c’erano stati parecchi episodi che dimostravano la compenetrazione tra questa organizzazione e Hamas sia sulla gestione degli aiuti che sulla copertura di arsenali e gruppi armati sotto e dentro edifici civili con la conseguenza di trasformare la povera gente in scudi umani. Le ispezioni richieste erano state negate. Non ci si credeva, sembrava impossibile che l’ONU si prestasse ad operazioni così contrarie alla sua missione. Oggi la conferma di questa triste verità viene dalla liberazione di Emily Damari, l’ostaggio anglo-israeliano prigioniero per 15 mesi in un edificio con bandiera ONU. Cioè l’UNRWA, cioè l’ONU, è diventata a Gaza strumento di Hamas. Cioè una istituzione universale di garanzia e di assistenza delle popolazioni si trasforma impunemente in strumento al servizio di assassini e carcerieri. Che dire? Tutto e niente. Le considerazioni sono tutte già nel fatto stesso.

Il caso Al Masri. Un caso da manuale scolastico di come si costruisce un intrigo internazionale senza averlo né deciso né impedito. Chi è Al Masri? Non un semplice generale e nemmeno solo il carceriere che si porta addosso i delitti di cui è accusato. No, è qualcosa di molto diverso, è un pezzo da novanta dei servizi segreti libici, evidentemente in contatto stretto con i servizi di mezzo mondo, da quelli americani a quelli dei paesi europei, compresi, è ovvio, quelli italiani. Nessuno potrà mai sapere di preciso attraverso quali incastri si sia prodotto l’intrigo che per 10 giorni (e magari continuerà ancora per settimane) ha dato luogo al solito spettacolo indecoroso di opposti schieramenti impegnati solo a strapparsi vicendevolmente qualche punto di consenso.

Ma una cosa è chiara anche al passante più sprovveduto: in tutti i casi analoghi in cui per qualsiasi ragione qualche pezzo da novanta è incappato in operazioni di polizia è immediatamente scattata la ragion di stato e l’episodio è stato coperto dal segreto di stato, che elimina ogni possibilità di interferenza. Gli statisti fanno così. De Gasperi, Andreotti, Craxi, avrebbero fatto così. Perché è normale così. La ragion di stato è parte integrante e addirittura a fondamento dello stato di diritto, che arriva ben più tardi rispetto ad essa. “Della Ragion di Stato” è un’opera del gesuita Giovanni Botero pubblicata a Venezia nel 1589. Va anche ricordato che il principio di ragion di stato è diventato un principio regolatore del potere degli stati fin dalla Pace di Westfalia del 1648. Cosa dire dunque del can can su un caso che caso è solo perché o lo si è voluto creare (e si può anche ben capire perché) o si è stati incapaci che non si creasse? Tutto e niente. Le considerazioni sono tutte già nel fatto stesso.

Questi due casi, pur così diversi, indicano che nell’epoca che viviamo si distruggono non solo persone, popolazioni, edifici e città, ambiente e storia. No, per completare l’opera si distruggono le istituzioni. Segni di resipiscenza? Ma quando mai! Controprova? Eccone una pronta proprio di queste ore. Donald Trump, personaggio che probabilmente diventerà sempre più oggetto di studio, dimostra che tra ciò che dice e ciò che fa non c’è di mezzo il mare, ma solo qualche ora. Ha detto che metteva dazi a raffica e lo sta facendo. Non tocca solo a Canada, a Messico e Cina; toccherà anche all’Europa. Così in Europa ci si preoccupa e la Commissione ci dice che siamo pronti a difenderci. Ma nessuno che lanci la vera reazione per recuperare l’infinito tempo perduto, cioè l’accelerazione del processo di unione, l’unico che nel nuovo scenario della competizione imperiale mondiale possa contrastare l’aggressività sia delle autocrazie esistenti sia di quelle che aspirano a diventarlo. O l’Europa diventa adulta, o nella temperie del mondo di oggi è destinata a scomparire come soggetto di politica reale e di storia.

E l’Italia? Le dichiarazioni di esponenti del governo sono disarmanti. Giorgetti si dice preoccupato e invita l’Europa ad attrezzarsi per difendere le nostre industrie, come se l’Italia non fosse parte dell’Europa e non avesse voce in capitolo quando ogni giorno ci viene ricordato che Il governo di Giorgia Meloni è oggi il punto di forza che ha sostituito nel ruolo l’asse franco-tedesco. Adolfo Urso va oltre: “L’Europa eviti la guerra commerciale. I rapporti di Meloni con gli Usa ci aiuteranno. Siamo fiduciosi nella grande attenzione che Trump manifesta nei confronti della premier. L’Italia guardi all’export americano di gas liquefatto. L’Ue rilanci l’industria e cambi il Green deal”.

Insomma, siamo nelle mani di Giorgia. E naturalmente nessuno che si ponga appunto il problema di fare dell’Europa un soggetto politico in grado di competere nello scenario globale per unità di politica estera, commerciale e militare, e per autorevolezza.

Questo lo stato dell’arte, molto poco incoraggiante. Ma gli ottimisti credono nella natura dialettica della storia. In fondo, perché dovremmo pensare che il vecchio Giorgio Guglielmo Federico Hegel, che ragionava in grande, ha faticato così tanto invano?